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Una Ahnenerbe casalinga, quarantaquattresima parte – Fabio Calabrese

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Negli ultimi tempi c'è stato un susseguirsi di notizie che parrebbe debbano cambiare per sempre la concezione che abbiamo delle nostre origini. Abbiamo cominciato con il segnalare la scoperta nella grotta francese di Bruniquel di un doppio cerchio di stalagmiti risalente a 175.000 anni fa, che sembrerebbe non potesse essere opera altro che dell'uomo di neanderthal, un'antichissima struttura architettonica che ci induce a rivalutare questi nostri antichi antenati sia per l'abilità manuale che essa dimostra, sia perché non sembra poter aver avuto finalità pratiche, ma verosimilmente di culto, aprendoci uno squarcio sul mondo interiore di questi antichi uomini, che ci appare inaspettatamente più ricco di quel che avremmo pensato.

A questa notizia ne hanno fatto seguito altre due: la scoperta nel DNA di neanderthaliani dell'Altai di tracce con l'incrocio con sapiens che si trovavano nell'Asia centrale almeno 30-50.000 anni prima di quanto previsto dalla “teoria” dell'Out of Africa (che non può essere salvata semplicemente retrodatandola, perché legata all'esplosione del vulcano indonesiano Toba avvenuta tra 50 e 70.000 anni fa, che si suppone avrebbe distrutto tutti gli altri ceppi umani allora viventi per lasciare spazio al “puro” filone africano), e come se non bastasse, la ricerca dell'Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona che avrebbe individuato nel DNA dei nativi delle isole Andamane e di altre popolazioni asiatiche le tracce di un per ora misterioso “quarto antenato” diverso dall'uomo di Cro Magnon, da quello di Neanderthal e anche da quello di Denisova.

Non c'è nulla da fare, la nostra è una specie politipica nata dall'incontro di diversi antenati. Questo chiaramente smentisce sia la favola di Adamo ed Eva sia quell'altra favola solo apparentemente più “scientifica”, chiamata falsamente teoria, che conosciamo come Out of Africa? Bene, cercheremo di farcene una ragione.

Dopo questa pioggia di novità veramente grosse, adesso abbiamo una serie di tasselli che vengono ad aggiungersi al quadro già delineato, che vede la nostra specie raccogliere l'eredità di diverse popolazioni pre-sapiens, e un'umanità più umana di quel che avevamo probabilmente pensato, con manifestazioni artistiche e probabilmente religiose di sconcertante antichità.

Ultimamente uno di quegli amici senza il cui contributo tenere questa rubrica sarebbe praticamente impossibile, il buon Joe Fallisi, mi ha segnalato due articoli di Maurizio Blondet non recentissimi, apparsi sul suo blog “Blondet & Friends” nel 2015; il primo lo conoscevo, il secondo no. Il primo dei due è dedicato a uno dei più sorprendenti manufatti che ci sono pervenuti, il cosiddetto idolo di Shigir ritrovato in Siberia; antico di ben 20.000 anni, è sostanzialmente non dissimile dai pali sciamanici, i totem che gli sciamani siberiani erigono ancora oggi. Lo sciamanesimo è dunque, conclude Blondet, la più antica religione vivente, testimonianza di una continuità non solo antropologica, ma culturale con la più remota preistoria. Forse ricorderete che in una precedente Ahnenerbe casalinga vi avevo dato appunto notizia di questo singolare ritrovamento con tutte le implicazioni che esso comporta.

Tuttavia, quello che ora ci interessa maggiormente è forse il secondo articolo che mi sarei perso senza la provvidenziale segnalazione di Fallisi. Quest'ultimo, pubblicato sempre su “Blondet & Friends” il 22 settembre 2015, ha un bel titolo polemico: Addio homo sapiens, adesso trionfa l'insipiens, ed è una risposta ad alcuni lettori che avevano minimizzato e ridicolizzato la scoperta. Persone ignoranti e prive di cultura, ci dice Blondet, ce ne sono sempre state, ma un tempo ammettevano la loro ignoranza rispetto a chi aveva una cultura e padroneggiava certe tematiche, ma oggi, “pompati” da un sistema mediatico che ammannisce frivolezze, costoro tendono a disprezzare e a mettere in ridicolo la conoscenza.

Quello che è di maggiore interesse, però è il fatto che Blondet, rivedendo la questione dell'idolo di Shigir, fa una sorta di panoramica della Siberia preistorica, e ne esce un quadro davvero sorprendente:

I ghiacci occupavano gran parte d’Europa e Nord-America, ma che (mistero) la Siberia e l’Alaska erano coperti di vegetazione lussureggiante, beneficiate da un clima mite: lo provano le immense distese di leguminose selvatiche, felci, campanule, ranuncoli , arbusti in paludi impenetrabili, che oggi formano i giacimenti di torba. Lo provano la quantità enorme di animali di grossa taglia che questa vegetazione sosteneva: mandrie immani di bisonti e renne, cavallini selvatici, cervidi d’ogni tipo, antilopi, pecore selvatiche, e lupi; ma coi lupi anche tigri e iene. Iene vicino al Polo Nord? Dove adesso la terra è gelata dal permafrost sotto le erbe stente, dove esiste solo la tundra e le temperature calano a 40 sottozero? Ebbene sì.

(...).

Qualcosa poi successe, attorno ai 9500 anni fa: l’80% della fauna siberiana morì di colpo, coi ranuncoli ancora in bocca o nello stomaco non ancora digeriti, per quella che sembra essere una tempesta di gelo, inaudita sciagura istantanea su cui i meteorologi si interrogano”.

Ora, si comprende bene che questo quadro della preistoria siberiana esposto da Blondet, in base al quale le regioni artiche avevano decine di migliaia di anni fa un clima molto diverso da quello attuale, e ben più propizio all'insediamento umano, coincide precisamente con quanto a questo proposito hanno sempre asserito le dottrine tradizionali che hanno visto, non nell'Africa ma nelle regioni boreali il luogo d'origine, la culla ancestrale della nostra specie, e d'altra parte, come abbiamo più volte rilevato, è facile rendersi conto che un clima rigido come quello che attualmente domina in queste regioni, non avrebbe certo potuto fornire la quantità di vegetazione necessaria a tenere in vita i grandi branchi di enormi animali come i mammut.

Per un altro verso, è anche interessante il fatto che Blondet butti lì la cosa come una postilla in un articolo di replica, come qualcosa che dovrebbe essere ovvio, ma evidentemente non lo è, e qui torniamo al fatto che certe conoscenze godono di una certa tolleranza finché girano in ambiti specialistici ma non devono arrivare al grosso pubblico, il fatto che la democrazia, teoricamente basata sulla libertà di opinione, porta in effetti al “pensiero unico” in maniera più efficace di qualsiasi sistema totalitario, semplicemente controllando quello che può filtrare o non filtrare attraverso i media. In questo caso, l'idea di un artico abitabile dall'uomo in epoche remote, potrebbe mettere in crisi l'Out of Africa, con tutte le sue ricadute di ideologia “antirazzista” che ne fanno ben altro, nel pensiero democratico, che una “semplice” teoria scientifica. Peccato soltanto che si tratti di una smaccata falsità.

A volte sembra proprio che il dio delle coincidenze faccia gli straordinari: in sintonia temporale davvero sorprendente con la programmazione delle due conferenze di Michele Ruzzai di cui vi ho raccontato le volte scorse, sono emerse in quella grande piazza mediatica che è il web, e che il sistema nel quale viviamo sembra non riesca ancora a controllare, tre notizie fondamentali che scuotono l'ortodossia ufficiale sulle nostre origini fin dalle fondamenta: il ritrovamento nella grotta di Bruniquel che ci lascia intravvedere un uomo di neanderthal molto più creativo e umano di quel che finora avevamo pensato, la prova genetica di incroci fra i neanderthaliani e i sapiens di Cro Magnon avvenuti in Eurasia 100.000 anni fa e quindi la presenza del sapiens “moderno” nell'area eurasiatica molto prima di quanto previsto dall'Out of Africa, e l'individuazione, sempre per via genetica, di un ancora innominato “quarto antenato” dell'umanità attuale, oltre ai tre finora conosciuti: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, ma davvero non finisce qui.

Stranamente, proprio adesso, “The Archaeology News Network” in data 4 febbraio riferisce di una scoperta fatta in realtà nel 1994, ma rimasta fino a ora oscurata da un quasi inesplicabile coverage (nemmeno si trattasse dei segreti della fabbricazione di armi nucleari). Appunto nel 1994 in una grotta nella regione dell'Ardeche in Francia, lo speleologo Jean-Marie Chauvet ha scoperto una serie di pitture parietali raffiguranti cervi, uri, bisonti, cavalli, mammut, rinoceronti, grandi felini che un tempo popolavano la regione, fra le più perfette e dettagliate finora conosciute, ma la grossa sorpresa è arrivata dall'esame al radiocarbonio dei pigmenti vegetali con cui queste immagini sono state tracciate: esse risalgono a 30.000 anni fa, e sarebbero non solo le più perfette, ma anche le più antiche pitture parietali preistoriche finora conosciute. La grotta sarebbe rimasta letteralmente sigillata in seguito a una frana avvenuta 12.500 anni fa, che l'avrebbe isolata dall'esterno, permettendo la conservazione del microclima e quindi delle pitture in condizioni ideali.

Devo dire la verità: l'amico che ha segnalato la notizia vi ha accluso un commento che mi ha fatto sorridere: “Alla faccia dell'evoluzione darwiniana!”. Molte persone non si rendono conto di quale sia la reale scala dei tempi prevista dalla teoria darwiniana, le trasformazioni delle specie non avvengono nell'arco delle decine di migliaia, ma dei milioni di anni, scoprire che uomini di 30.000 anni fa erano in grado di produrre opere d'arte di sorprendente bellezza, erano in definitiva umani quanto lo siamo noi, non la intacca minimamente, ma sappiamo che al riguardo esiste un diffuso equivoco sul quale mi sono soffermato più volte, distinguendo l'interpretazione progressista-buonista-di sinistra dall'originale e reale pensiero del grande naturalista, ma ora non vorrei ripetere punto per punto la disamina della questione che ho fatto nella quarantatreesima parte, e alla quale rimando.

Quel che invece mi pare entri sempre più in crisi è il concetto di progresso, l'idea della storia come sviluppo ascendente verso livelli sempre più alti. L'essere umano così come lo conosciamo sembrerebbe esistere da qualcosa come 200.000 anni. Ora una cosa che proprio non si può contestare, è che 200.000 : 5.000 = 40. In altre parole, esistiamo da un tempo che è quaranta volte più ampio di quello che costituisce tutta la storia documentata. Che in questo lasso di tempo enorme, possano essere esistiti interi cicli di civiltà ed essere poi svaniti nel nulla lasciando dietro di sé ben poche tracce enigmatiche, è un'idea tutt'altro che irragionevole, ed è anche chiaro perché la visione (o l'accecamento) progressista tende a escludere questo concetto, perché se accettato, implicherebbe che anche la civiltà moderna potrebbe condividere la stessa sorte, e se il mondo moderno dovesse crollare domani, fra – poniamo – diecimila anni, avrebbe lasciato ben poche tracce della sua esistenza a beneficio degli archeologi di tempi futuri.

Possiamo spostarci indietro nel tempo quanto vogliamo, scopriamo esseri umani più simili a noi di quel che finora avevamo pensato. A parte le pitture parietali dell'Ardeche, pensiamo al doppio circolo di stalagmiti di Bruniquel, che difficilmente possiamo immaginare opera di creature semi-scimmiesche come spesso sono ancora raffigurati gli uomini di Neanderthal. Nelle illustrazioni che corredano la trentanovesima parte vi avevo riportato la ricostruzione di un ragazzo, e nella quarantunesima quella di un bambino neanderthaliani, nel cui aspetto di scimmiesco non c'è alcunché, e che poco differirebbero dalle immagini che si possono vedere in qualche foto di famiglia. Si potrebbe però obiettare che si tratta di ricostruzioni di soggetti infantili, che sono sempre più “carini” degli adulti, allora stavolta vi allego la ricostruzione della fisionomia di un neanderthaliano adulto, tratta da un articolo de “La Stampa” nella versione on line di data 30.1.2014. Che ne dite? Non potrebbe essere il vostro vicino di casa?

La prima delle altre due immagini che correda questo articolo è quella dell'idolo di Shigir di cui ha parlato Maurizio Blondet. Di per sé forse non ci potrebbe dire molto, finché non teniamo conto che questo manufatto ligneo ha qualcosa come 20.000 anni, che la sua fattura è separata da noi da un arco di tempo quattro volte maggiore di quello che ci separa dall'edificazione delle piramidi e dall'inizio della storia documentata. Non ve n'è più che a sufficienza per mettere in crisi il nostro presuntuoso concetto di progresso?

La terza immagine è la locandina della conferenza che ho tenuto sabato 11 marzo qui a Trieste alla Casa del Combattente, “Alle origini dell'Europa”, introdotta da una presentazione del nostro eccellente amico Michele Ruzzai.

Questa conferenza si è posta su di una linea di continuità con le due già tenute da Michele il 27 gennaio e il 24 febbraio nella sede del circolo “Identità e tradizione” aventi per tema rispettivamente le origini degli Indoeuropei e “Patria artica o madre Africa?”, ossia la confutazione della “teoria” delle origini africane della specie umana che rappresenta la “vulgata” ufficiale che la democrazia vorrebbe imporre come “verità scientifica”. C'è da aggiungere che la disponibilità della più ampia e ricettiva sala della Casa del Combattente è stata possibile grazie alla collaborazione con le Associazioni d'Arma instauratasi grazie a Gianfranco Drioli, di cui dobbiamo sempre ricordare l'ottimo testo Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta.

Quanto al contenuto della conferenza stessa, io non vorrei ripetermi, perché in sostanza lo conoscete ad abundantiam, essendo esso una sintesi di quanto vi ho già esposto nei ventitré articoli della serie “Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?”, cioè la confutazione della leggenda della derivazione della civiltà europea dall'oriente (prossimo, medio od estremo), in favore della rivalutazione delle sue origini autoctone.

C'è forse tuttavia un punto che merita un ulteriore approfondimento. Un'osservazione sulla quale mi sono ripromesso di tornare, è l'idea oggi comunemente diffusa e frequentemente rimpallata dai media, secondo la quale la civiltà deriva sempre dalla commistione di popoli e culture, dal fatto che qualcuno prenda qualcosa da qualcun altro. A parte il fatto evidente che questa mentalità è stata diffusa per favorire l'accettazione o la rassegnazione a vedere oggi il nostro continente invaso dalla feccia del Terzo Mondo, magari a pensare che questa catastrofe sia qualcosa di positivo, questa per un altro verso è la mentalità tipica di certa gente che vive in mezzo a noi da un paio di millenni ma non ha mai perso il legame con la sua origine mediorientale, che rappresenta all'incirca lo 0,2 per cento della popolazione umana ma è autrice del cento per cento delle idee della democrazia e della modernità: quello che hai è sempre qualcosa che hai preso a qualcun altro, non è mai il frutto del tuo lavoro, della tua intelligenza, della tua creatività, anche perché costoro per il lavoro non sono molto portati, e creatività non ne possiedono, tranne che nell'inventare modi per impadronirsi di ciò che non è loro, ma si comprende l'assurdità implicita nell'idea di un regresso all'infinito per qualsiasi invenzione umana.

Per quanto riguarda la nostra Europa, molti ricercatori con insistenza degna di miglior causa, hanno costantemente cercato di far risalire a un'origine allogena qualsiasi innovazione, qualsiasi elemento della cultura - intellettuale e materiale – europea. Anche se fosse, non c'è forse creatività nel migliorare, nel trasformare in qualcosa di funzionante le intuizioni che altri hanno avuto ma non saputo sviluppare?

Prendiamo ad esempio l'invenzione della bussola: sarà anche vero che i Cinesi sono stati i primi a scoprire le proprietà dei minerali magnetici, ma le loro “bussole” erano di un'efficienza così scarsa da renderle praticamente inutilizzabili, un ago di magnetite su un tappo di sughero che galleggiava su una bacinella di acqua. L'idea di incernierare l'ago magnetico su di un perno venne ai marinai di Amalfi, è un'invenzione italiana.

Un discorso analogo si può fare per l'invenzione dell'alfabeto: i Fenici, avvalendosi del fatto che nelle lingue semitiche le vocali non hanno importanza, ridussero la scrittura demotica egizia (che era sillabica) a una ventina di segni, ma la VERA invenzione dell'alfabeto, con la divisione della sillaba in consonante e vocale e l'introduzione degli spazi fra le parole, sostanzialmente il sistema semplice e pratico che usiamo ancora oggi, fu opera dei Greci. Qualcuno ha detto che la fissione della sillaba in consonante e vocale, è stata di importanza paragonabile alla fissione dell'atomo.

Ma siamo sicuri che non esista alcuna invenzione tipicamente europea i cui prodromi non possano essere rintracciati fuori dal nostro continente? Pensiamo alle cattedrali gotiche che cominciarono a diffondersi in tutta Europa a partire dai secoli XI e XII. Questi edifici sono il prodotto di una tecnica costruttiva del tutto nuova, grazie alla quale il peso non si scarica sulle murature, ma sulle costolature formate dagli archi rampanti, le potremmo paragonare a enormi tende di pietra che sono sorrette non dal telo ma dall'intelaiatura. E' questa tecnica che ha permesso di erigere per la prima volta edifici che raggiungono le loro straordinarie altezze senza avere una base enorme (come avviene per le piramidi). Anche in questo caso “benintenzionati” studiosi e orientalisti, hanno cercato di attribuire a questa tecnica costruttiva un'origine non europea. Invano! Non c'è né in Medio Oriente né altrove fuori dall'Europa alcun edificio strutturalmente simile a una cattedrale gotica.

Un'altra invenzione di cui, nonostante tutti i “benintenzionati” sforzi non sono stati trovati precedenti fuori dall'Europa medioevale, è il timone posteriore delle imbarcazioni, che ha reso di gran lunga più sicura la navigazione. Un'invenzione da poco? Mettete insieme il timone posteriore con la nave a sponde rialzate in grado di affrontare i marosi oceanici, invenzione frisone anch'essa di epoca medioevale, aggiungeteci la bussola e le armi da fuoco, anch'esse invenzione europea (la polvere pirica fu scoperta dai cinesi, ma costoro oltre i petardi non andarono), e cosa ottenete? Il controllo degli oceani e del globo terracqueo, quale l'Europa ha avuto dal XVI al XIX secolo.

Noi sappiamo che tra la fine del XIX secolo e la metà del XX secolo l'Europa ha perduto la posizione di predominio mondiale a causa delle due guerre mondiali, e oggi si vede minacciata dall'invasione extracomunitaria nella sua stessa sostanza etnica, ma tanto più dobbiamo essere consapevoli di avere una grande eredità, non solo culturale, da difendere.


Una Ahnenerbe casalinga, quarantacinquesima parte – Fabio Calabrese

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Abbiamo alle spalle un periodo particolarmente intenso per quanto riguarda lo studio delle origini, un periodo nel quale sembra davvero che il mistero e l'incertezza creati dal trascorrere del tempo sull'origine dei nostri più lontani antenati, siano sul punto di squarciarsi lasciandoci intravedere un paesaggio nuovo e imprevisto.

Abbiamo cominciato questa fase sorprendente con la scoperta da parte di speleologi francesi del doppio circolo di stalagmiti nella grotta di Bruniquel, quella che possiamo considerare la prima struttura architettonica del mondo, risalente a 175.000 anni fa, opera dell'uomo di neanderthal, che ci induce non solo a rivalutare l'abilità costruttiva di questo nostro lontano antenato, ma, considerando il fatto che è stata realizzata in un ambiente sotterraneo, lavorando a grande profondità alla luce delle torce e non sembra aver avuto una qualche utilità pratica immediata, ma si trattava verosimilmente di un luogo di culto, il più antico tempio conosciuto potremmo dire, ci apre uno spiraglio sul mondo spirituale e interiore di questi uomini di tempi lontani verosimilmente molto più simili a noi di quel che avevamo finora creduto.

Era forse prevedibile. Le notizie più interessanti e maggiormente capaci di sconvolgere il quadro che finora presumevamo di conoscere, o ci era stato imposto, delle nostre origini, sono venute e stanno venendo dalla genetica dallo studio del DNA: la scoperta, dallo studio del DNA di resti di neanderthaliani provenienti dalla regione siberiana dell'Altai, di tracce dell'incrocio con sapiens di tipo Cro Magnon risalente a 100.000 anni fa, e dunque il fatto che questi ultimi erano presenti nell'Eurasia settentrionale ben prima di quanto prevedesse la “teoria” dell'Out of Africa, e infine – ciliegina sulla torta, potremmo dire – sempre riscontrate a livello genetico, in alcune popolazioni asiatiche, le tracce di un per ora misterioso “quarto antenato” dell'umanità attuale diverso dai tre finora conosciuti: Cro Magnon, Neanderhal, Denisova.

Considerando il principio della deriva genetica, cioè che man mano che popolazioni satelliti si staccano da una popolazione ancestrale, vi è una perdita di variabilità genetica, questi indizi puntano in una direzione precisa, indicano la culla ancestrale dell'umanità non in Africa ma nelle regioni settentrionali dell'Eurasia, regioni che in passato dovevano godere di un clima molto più favorevole all'insediamento umano di quello attuale.

Veramente, se a parlare fossero semplicemente i dati di fatto e non il pregiudizio ideologico, l'Out of Africa andrebbe completamente ripudiata, ma sappiamo che questa versione della nostra storia come specie non è nata da dati scientifici ma, “per battere il razzismo”, cioè nell'ipocrita linguaggio orwelliano della democrazia, la constatazione che le razze umane esistono, nella prospettiva dell'imposizione dell'universale meticciato.

Quanto più approfondiamo la conoscenza del genoma delle popolazioni antiche, tante più cose sorprendenti e inaspettate scopriamo, ad esempio, secondo un articolo recentemente apparso su “Le scienze” (pubblicazione di estrema, estremissima destra, come tutti sanno), l'apporto dei nostri antenati neanderthaliani e denisoviani non avrebbe soltanto irrobustito il nostro sistema immunitario, ma in particolare un gene che abbiamo ereditato dall'uomo di neanderthal avrebbe la funzione di prevenire disturbi psichiatrici come la schizofrenia. Sarà mica per questo che tra i neri subsahariani che non hanno potuto beneficiare di un tale apporto, i casi tipo Kabobo sono alquanto più frequenti che fra caucasici e mongolici, eredi di Neanderthal e di Denisova?

Veramente c'è da pensare che qualunque dio presieda alle vicende umane, debba avere uno spiccato senso dell'umorismo: “l'antirazzismo” africano-centrico si traduce in una esaltazione della “pura linea africana” in confronto a noi ibridi di Neanderthal e di Denisova (per non dire del “quarto antenato” ancora da identificare), cioè in un razzismo biologico che avrebbe fatto arrossire un positivista del XIX secolo.

Oltre e ciò va aggiunto che in questo periodo a cavallo tra gennaio e marzo 2017, noi qui a Trieste, questa città indubbiamente piccola e marginale nel contesto italiano, eppure per certi versi sorprendentemente viva dal punto di vista intellettuale, abbiamo avuto un bel po' di attività, la conferenza, seguitissima, dell'amico Michele Ruzzai del 27 gennaio su “Le radici antiche degli indoeuropei” a cui è seguita il 24 febbraio “Patria artica o madre Africa?”, una decisa confutazione della “teoria” africano-centrica delle nostre origini. Infine, a chiudere il cerchio, o meglio il triangolo, la mia conferenza dell'11 marzo “Alle origini dell'Europa”.

Non ci eravamo proprio messi d'accordo, ma proprio a mezzo fra le due conferenze di Michele Ruzzai, sabato 18 febbraio c'è stata al New Age Center la conferenza di Antonio Scarfone, cosmologo e docente della California University (uno dei non pochi cervelli che questa nostra Italia ha costretto a emigrare all'estero per trovare una collocazione professionale adeguata) su “Epicentro Mu”, conferenza di presentazione del suo omonimo libro, che ha affrontato un tema, quello dei continenti perduti e delle remote civiltà scomparse prima dell'inizio della storia ufficiale, tema che si salda molto bene alle nostre problematiche, perché confuta lo schema semplicistico delle origini sostenuto dall'ortodossia ufficiale, e anche perché dimostra tutta l'illusorietà della mitologia progressista che vorrebbe vedere nella storia uno sviluppo in costante ascesa.

Cosa strana, ma sembra davvero che in questo periodo il dio delle coincidenze abbia fatto gli straordinari, quasi in contemporanea, la rivista “Atlanthean Gardens”, quella stessa che ha reso note nel mondo occidentale le ricerche dei genetisti russi  A. Klysov e I. Rozanskij che smentiscono l'Out of Africa, ha reso nota una ricerca statunitense che avrebbe individuato un tipo di aplogruppo mitocondriale comune solo al alcune popolazioni americane native delle costa orientale degli USA di oggi e ai Baschi, cosa che si spiegherebbe solo con l'esistenza di una terra oggi scomparsa che abbia fatto da ponte fra le coste orientali dell'America e quelle occidentali dell'Europa, cui è difficile dare qualche altro nome se non quello di Atlantide.

Dopo un periodo così intenso, è ora forse il momento di soffermarsi ad approfondire qualche punto.

Come ricorderete, nella quarantaduesima parte avevo ripreso in mano la tematica dello sfondo più generale in cui si situa il divenire delle forme viventi e quindi anche della nostra specie. Credo di avervi spiegato più volte il concetto che la concezione evoluzionista-progressista così come è comunemente diffusa, in realtà è un fraintendimento o una falsificazione dell'autentica teoria di Darwin, che tende a sottolineare il presunto aspetto ascendente delle trasformazioni che avvengono nel mondo vivente, a vedere ogni cambiamento come bene (cosa che il grande naturalista inglese si è sempre ben guardato dal pensare), e in compenso preferisce ignorare certi aspetti “sgradevoli” della teoria darwiniana: la selezione naturale, la lotta per l'esistenza, la sopravvivenza del più adatto, concetti che falciano l'erba sotto i piedi al buonismo-progressismo-democraticismo di matrice cristiana, e la tendenza insita nei viventi a trasmettere alle generazioni future il proprio genoma, non quello di chicchessia (da questo punto di vista, i genitori adottivi che allevano dedicandogli tempo ed energie un figlio non proprio, specialmente se con un genoma lontano dal loro, come nel caso delle adozioni internazionali fatte nel Terzo Mondo, sono un fallimento dal punto di vista biologico tanto quanto una coppia di uccellini il cui nido è stato parassitato da un cuculo).

D'altro canto, Julius Evola spiegava che la comparsa man mano che si procede nel tempo, di tipi viventi più complessi, può essere spiegata con il decadere nella materialità di entità di livello man mano superiori, e quindi quella che leggeremmo come evoluzione sarebbe in realtà decadenza. Un punto di vista evidentemente troppo difficile per molti suoi discepoli che si sono ridotti a cascare nel creazionismo puro e semplice aprendosi la strada (non soltanto per questo motivo, ovviamente) per un ritorno alla mentalità cristiana-abramitica, ma si può dire che in realtà non hanno mai capito Evola così come i progressisti (a cominciare da Marx, che di scienze non capiva nulla) non hanno mai capito Darwin.

Concludevo (e scusatemi l'auto-citazione):

Se noi invece siamo capaci di coniugare la concezione evoliana genuina con la visione “non-buonista” del darwinismo (che in campo filosofico è rappresentata a mio parere soprattutto da Nietzsche), disporremo di un'arma formidabile capace di spazzare via tutte le chimere cristiane-democratiche-marxiste-progressiste”.

A margine della conferenza del 24 febbraio, ho avuto modo di riprendere l'argomento con Michele Ruzzai. A parere di Michele, il punto di vista da me espresso sarebbe accettabile però con un'importante precisazione. L'adattamento all'ambiente degli esseri viventi indubbiamente esiste, ma non ha un significato evolutivo. Man mano che un essere si adatta a una nicchia ecologica, cioè “si specializza”, così facendo si chiude altre possibilità in grado progressivamente maggiore. Per fare un esempio, la zampa di un cavallo, l'ala di un pipistrello, la pinna di un delfino, derivano tutte da un arto primitivo simile alla mano umana. Noi non potremo mai correre come un cavallo, volare come un pipistrello, nuotare come un delfino: i nostri arti non sono così specializzati, ma i nostri arti ci permettono una versatilità di funzioni che queste creature hanno perso.

L'uomo non è l'essere più evoluto, ma potremmo dire il più primitivo, quello che ha meno deviato da un modello ancestrale.

Lo stesso concetto di ancestralità in opposizione ad adattamento-deviazione da un modello originario, lo si può applicare su scala minore all'interno della nostra specie. Partendo da questo presupposto e sapendo che la culla ancestrale della nostra specie va cercata non in Africa ma nell'Eurasia settentrionale, nelle regioni circum-polari (in un'epoca in cui esse avevano un clima molto diverso da quello attuale), è ragionevole la supposizione che proprio l'uomo cucasico-europide sia quello maggiormente rimasto fedele al modello originario della nostra specie.

Come avete visto, io in queste pagine ho fatto spesso riferimento al gruppo facebook “MANvantara” creato da Michele Ruzzai per dare spazio a queste tematiche, ma perlopiù ho evitato ed evito di riportare singoli articoli qui comparsi, sia per evitare doppioni, sia perché penso sia preferibile rimandarvi direttamente agli scritti che qui compaiono. Stavolta facciamo un'eccezione.

Recensendo il libro Le razze umane, origine e diffusione di Georg Glowatzki (Editrice La Scuola, 1977), Michele ha scritto:

In merito alle popolazioni di piccola statura stanziate nelle zone tropicali asiatiche, a pag. 54 Glowatzki ricorda i Veddidi (presenti soprattutto in India), che da alcuni antropologi vengono considerati europidi, mentre altri li definiscono “protoaustraloidi”, è tuttavia notevole il fatto, segnalato dall'autore, che scheletri veddidi sarebbero stati rinvenuti anche in Mesopotamia. Si può quindi ipotizzare una loro antica diffusione ben maggiore rispetto a quella odierna”.

Una piccola osservazione a margine: si tratta di un testo che risale a quarant'anni fa, oggi semplicemente non sarebbe consentito parlare di razze, e caso mai ci aspetteremmo di veder pubblicato un libro del genere da qualche editore “di Area”, non certo da una casa editrice generalista rivolta al grande pubblico come “La Scuola”. La cosiddetta democrazia nella quale viviamo coincide sempre con il restringimento della circolazione delle idee e delle informazioni, e in ultimo della capacità di pensare.

Io mi sentirei di avanzare l'ipotesi che i Veddidi rappresentino un tipo di transizione che va dall'europide all'australoide, così come ad esempio gli Ainu del Giappone potrebbero rappresentare un altro tipo di transizione che va dall'europide al mongolico. Si può anche ricordare che gli antenati degli Amerindi che migrarono dall'Asia nelle Americhe circa 20.000 anni fa, presentavano un grado di mongolizzazione imperfetto; tra i loro discendenti, ad esempio la plica mongolica, il famoso occhio a mandorla, è quasi del tutto assente. Tutti questi elementi rafforzano l'idea dell'ancestralità del tipo europide rispetto agli altri gruppi umani.

Che strano! Non è davvero sorprendente che quanto più si approfondisce la nostra conoscenza in proposito, tanto meno l'immagine del nostro passato e di noi stessi che ne ricaviamo, somiglia sempre meno a quel che l'ortodossia oggi dominante e che si pretende “scientifica” vorrebbe imporci di credere, e invece somiglia sempre di più a ciò che hanno da dirci al riguardo le dottrine tradizionali?

NOTA: Nelle illustrazioni che corredano questo articolo vediamo la copertina del libro di Antonio Scarfone Epicentro Mu, di cui la conferenza di sabato 18 febbraio al New Age Center è stata la presentazione, poi alcuni moai, le gigantesche statue busti dell'Isola di Pasqua. Scarfone riferisce che secondo le leggende dei nativi di origine polinesiana che oggi abitano l'isola, quando i loro antenati giunsero sull'isola, i moai “erano già lì”. Secondo Scarfone i moai sarebbero un residuo dell'antico continente Mu di cui l'isola un tempo avrebbe fatto parte.

Anche in questo caso una domanda va ovviamente posta: per quale motivo l’archeologia e la “scienza” ufficiali tendono a scartare come fonti di informazione utili a ricostruire il passato le tradizioni dei popoli i cui antenati furono protagonisti o assistettero agli eventi che si vogliono indagare? Non è la stessa cosa, faceva notare Michele Ruzzai, che indagare su di un incidente o su di un delitto scartando in blocco tutte le testimonianze?

La risposta è semplice: l’idea stessa di una civiltà antica di 40.000 anni come sarebbe stata quella dell’ipotetico continente Mu, sarebbe già da sola sufficiente a scardinare “il mito” progressista che vogliono imporci a tutti i costi della storia umana come processo lineare e ascendente.

L’altra illustrazione riporta invece alcune fisionomia veddidi. Riprendo questa immagine da “MANvantara”, ma la sua fonte originale è il libro di Georg Glowatzki  Le razze umane, origine e diffusione.

 

Una Ahnenerbe casalinga, quarantaseiesima parte – Fabio Calabrese

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Il nostro amico Michele Ruzzai ormai lo conosciamo bene, e sappiamo che su certe tematiche, come appunto quelle relative alle origini, alla preistoria, a quella che sarebbe forse bene chiamare la storia non documentata, ha una competenza davvero invidiabile di cui ha dato un eccellente esempio sabato 11 marzo nell'introduzione che ha fatto alla mia conferenza sulle origini dell'Europa tenutasi a Trieste alla Casa del Combattente, un'introduzione talmente bella e puntuale da mettermi nella situazione di chiedermi con imbarazzo se la mia conferenza sarebbe stata all'altezza della presentazione. Forse l'unica cosa che si può rimproverare al nostro eccellente amico, è la relativa rarità con cui i suoi scritti compaiono su “Ereticamente”.

Bene, nella presentazione della mia conferenza (di cui abbiamo il testo che Michele si era diligentemente preparato, mentre io, presentando le sue del 27 gennaio e del 24 febbraio, ho parlato a braccio), il nostro amico ha toccato un punto di estrema importanza che ora conviene rimarcare:

Come in nessun altro continente, apparteniamo tutti ad unico ceppo razziale, quello europide, mentre invece altre aree del pianeta presentano fenotipi molto più eterogenei. Ad esempio, l’America ha una base caucasoide arcaica sulla quale si sono inseriti ceppi mongolidi più recenti, e forse anche alcune influenze più specificatamente cromagnoidi nel settentrione del continente. L’Asia è terra mongolide ad est, caucasoide ad ovest e a sud, presenta forme intermedie al centro e a nord (popolazioni turaniche e siberiane) ed alcuni isolati pigmoidi nel sud-est (negritos). L’Oceania è australoide, ma anche negroide (melanesiani) ed ha nei polinesiani un gruppo dalla classificazione controversa (mongolidi dai caratteri attenuati per alcuni, caucasoidi per altri). L’Africa è caucasoide a nord, etiopoide ad est, capoide all’estremo sud (boscimani ed ottentotti) e negride in tutte le altre zone, con un’importante presenza pigmoide al centro. In termini bio-antropologici l’Europa si presenta quindi come una terra molto più omogenea di tutte le altre, anche se ciò comunque non implica una totale uniformità umana vista la presenza di una piacevole varietà di tipi lievemente diversificati (nordici, dalici, mediterranei, alpini, adriatici, baltici…) tra i quali è tuttavia palpabile una stretta vicinanza di base.

(...).

Se al mondo vi è una terra con una sua ben precisa individualità ed una stirpe, a livello continentale, con una sua ben definita identità la risposta è chiara: siamo noi Europei”.

Questo è ciò che ci ha sempre caratterizzati per tutto l'arco della nostra storia, e questa compattezza etnico-antropologica è certamente stata la molla mica tanto segreta dell'originalità e della creatività europea che ha posto il nostro continente alla testa della civiltà umana, almeno fino a ora, mentre oggi stiamo assistendo al lento assassinio del nostro continente attraverso l'immigrazione, il meticciato e la sostituzione etnica, destino che non è scritto nelle stelle, ma che il potere mondialista dietro le quinte, i nemici dell'Europa, le forze disgraziatamente vincitrici del secondo conflitto mondiale anche se gli esiti ultimi si vedono solo adesso, hanno deciso per noi.

Bene, può essere interessante sapere che tra gli zelanti servitori del potere mondialista che ha deciso la nostra morte, c'è qualcuno che ha deciso di portarsi avanti con il lavoro. Uno degli amici senza le cui segnalazioni questa rubrica non esisterebbe o sarebbe molto più difficile da tenere, e che considero “collaboratori indiretti” della nostra “Ereticamente”, ma dato che non so se abbia piacere di essere nominato qui, citerò solo con le iniziali, A. F., mi ha recentemente segnalato il fatto che se si va su google immagini e si digita (per ora in inglese, ma è probabile che la versione italiana non tardi ad arrivare) “European History People”, ci si trova davanti una sorprendente (e repellente) carrellata di fisionomie negroidi, è la “gente d'Europa” come la vuole il potere mondialista, come hanno intenzione di farla diventare. Certo, noi possiamo semplicemente pensare che qualcuno dei rinnegati e traditori al servizio del nemico abbia semplicemente precorso i tempi scambiando il suo infame desiderio per la realtà, ma voi pensate semplicemente a un ragazzo che faccia ricerche in internet per motivi di studio (e i giovani oggi non sanno nulla a parte le falsità che gli ammannisce il sistema scolastico), sarà portato a credere che il meticciato e la società multietnica siano qualcosa di normale, sempre esistito, non si renderà conto che, se è un europeo di stirpe nativa, nella società multietnica simil-americana che si va costruendo, lui è il pellerossa.

Vi ho parlato più volte dell'interessante gruppo facebook che il nostro Michele ha creato per esplorare la questione delle origini, “MANvantara”, tuttavia avrete anche visto che qui non ho riportato se non pochissime volte stralci dei testi che vi compaiono, e in genere sotto forma di citazioni molto brevi, e il motivo è semplice, non mi sembra utile creare doppioni, ed è meglio che andiate a consultare direttamente le molte cose pubblicate in questo gruppo sia da Michele sia da altri collaboratori (trovate anche articoli miei, vi prego di avere pazienza). Stavolta però facciamo un'eccezione. In data 16 marzo, Michele ha pubblicato nel gruppo un breve articoletto-recensione sull'ultimo numero de “Le Scienze” (pensate che fonte estremista di destra, “Le scienze”!) dove in un articolo si parla del fossile cinese noto come l'uomo di Liuijang. Questo fossile dalle caratteristiche chiaramente sapiens sembrerebbe, in base allo studio dei sedimenti in cui era incluso, avere un'età fra i 111.000 e 139.000 anni. Bene, se ricordate in un precedente articolo di questa serie vi ho parlato di un altro sapiens cinese estremamente antico, l'uomo di Dali, che sembrerebbe collocabile attorno ai 124.000 anni or sono, quindi nello stesso orizzonte temporale del fossile di Liuijang.

Perché sono importanti questi ritrovamenti? Non solo perché attribuiscono all'Asia orientale un ruolo di importanza finora sottovalutata nell'origine della nostra specie, ma perché costituiscono la smentita definitiva dell'Out of Africa.

Secondo questa sedicente teoria imposta dalla democrazia per motivi “antirazzisti” come “ortodossia scientifica”, infatti, noi tutti saremmo i discendenti di un gruppo di sapiens africani migrati dal Continente Nero dopo che l'inverno nucleare provocato dalla gigantesca esplosione del vulcano indonesiano Toba avvenuta fra 50 e 70.000 anni fa, avrebbe cancellato le numerose popolazioni pre-sapiens o sapiens arcaiche fin allora esistenti. E' chiaro che i ritrovamenti di reperti sapiens più antichi di 70.000 anni (e in questo caso posti a una distanza temporale quasi doppia) tagliano le gambe a questa presunta teoria, che se non fosse sostenuta dalla censura e dal potere mediatico, dalla disinformazione costante e sistematica, sarebbe scomparsa da un pezzo nel limbo delle idee sballate o dimostratesi palesemente false.

Un fatto ormai accertato, è che noi caucasoidi, a differenza degli africani “puri” che non ne presentano traccia, abbiamo nel nostro patrimonio genetico una frazione non trascurabile di geni che derivano dall'uomo di neanderthal. Come ho ribadito più volte, questo nostro antenato era lontano dall'essere il bruto scimmiesco come spesso lo si continua a raffigurare pur sapendo che ciò non corrisponde affatto alla realtà.

Ora sembra proprio che noi abbiamo gravemente sottovalutato questi nostri remoti antenati. L'8 marzo il sito “labroots” ha pubblicato un articolo riportato da “Genomics & Genetics” che ha a sua volta ripreso dalla prestigiosa rivista scientifica americana “Nature”, a firma della ricercatrice Carmen Leicht, dove si parla di una ricerca condotta da paleoantropologi australiani dell'Australian Centre for Ancient DNA (ACAD) dell'università di Adelaide in collaborazione con l'università inglese di Liverpool sui resti di due gruppi di neanderthaliani provenienti da Spy in Belgio e da El Sidron in Spagna. I ricercatori hanno esaminato la placca dentale dei fossili, che conserva anche per decine di migliaia di anni le tracce del DNA degli organismi animali e vegetali che questi uomini di tempi remoti ingerirono come cibo.

La ricerca ha evidenziato una dieta ricca e diversificata sia per gli alimenti di origine animale, sia per i vegetali in entrambi i gruppi, ma quel che è emerso a sorpresa, ed è probabilmente l'elemento di maggior interesse, è l'uso delle piante officinali che testimonia una buona conoscenza della farmacopea.

A quanto pare gli uomini di Neanderthal hanno posseduto una buona conoscenza delle piante medicinali e delle loro proprietà antidolorifiche e anti-infiammatorie”, riporta l'autrice.

In particolare, fa riferimento a un uomo i cui resti sono stati ritrovati a El Sidron, che soffriva di un ascesso dentario e di un parassita intestinale che gli doveva procurare attacchi di diarrea acuta. La sua placca conserva le tracce del consumo di corteccia di salice (che contiene l'acido salicidico, il principio attivo dell'aspirina), e muffa del genere penicillum, da cui in tempi moderni si è ricavata la penicillina. Gli antidolorifici e gli antibiotici che noi consideriamo le armi di punta della farmacopea moderna, dunque erano già conosciuti nella remota preistoria dai nostri antenati neanderthaliani!

Aggiungiamo, tanto che siamo in argomento una notizia che viene da ANSA.it del 6 marzo (Naturalmente l'ANSA, così come “Nature” o anche “Le scienze” o “La Repubblica” - “L'Espresso” dai cui articoli scientifici più volte abbiamo tratto elementi a sostegno delle nostre tesi, sono tutti siti di estrema, estremissima destra). Sapete di dove erano i neanderthal più antichi conosciuti in Europa? Romani! Un riesame di resti fossili umani e animali degli insediamenti neanderthaliani della valle dell'Aniene, ha permesso di stabilire una data di almeno 250.000 anni (con un margine di incertezza fra 295.000 e 245.000 anni) che ne fa in assoluto i più antichi reperti neanderthaliani conosciuti. Lo studio è stato compiuto dai ricercatori dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) in collaborazione con i paleontologi delle università La Sapienza, Tor Vergata e Roma 3. Occorre ricordare, riporta l'articolo, che già negli anni '30 nel non distante sito di Saccopastore furono rinvenuti due crani neanderthaliani che presentavano caratteristiche di notevole antichità.

Caso singolare, proprio in questo periodo, il 6 marzo, su “MANvantara”, Raffaele Giordano ha riproposto un articolo di Mario Quagliati già apparso nel 2000 sul sito del Centro Studi La Runa sull'Uomo del Pliocene di Savona. Si tratta di questo: Nel 1852 a Savona nel corso di lavori di sbancamento fu ritrovato uno scheletro umano pressoché completo sepolto a circa 3 metri di profondità in un orizzonte stratigrafico risalente al Pliocene (da 5 a 3 milioni di anni fa, all'incirca); le condizioni del sedimento in cui lo scheletro era incluso, portavano ad escludere che si trattasse di una sepoltura recente intrusiva in strati molto più antichi. Data l'epoca, il ritrovamento fu accolto dalla comunità scientifica di allora con totale scetticismo e disinteresse (questo ritrovamento avvenne, è il caso di ricordarlo, sette anni prima della pubblicazione de L'origine delle specie di Charles Darwin), e queste importantissime ossa andarono quasi completamente disperse. Tuttavia, ed è questa la cosa davvero scandalosa, nemmeno in tempi recenti, le poche ossa che si sono conservate, sono state degnate di un serio studio da parte degli specialisti.

Il perché noi lo comprendiamo molto bene: un serio studio sui resti di un essere umano pienamente umano contemporaneo dei famosi ominidi africani, e per di più vissuto non in Africa ma in Europa, metterebbe in crisi in modo irrimediabile il quadretto sulle nostre origini tracciato dalla “scienza” ufficiale, che non ha lo scopo di cercare la verità, ma quello di avvalorare i dogmi del pensiero democratico.

C'è poi un punto che va evidenziato: siamo in Italia. Mentre altrove esiste la tendenza a ingigantire l'importanza di tutto ciò che ha a che fare con la propria nazione, da noi sembra che valga la regola opposta: tutto ciò che riguarda il ruolo del nostro passato nel contesto più vasto della storia umana, sembra che debba essere a tutti i costi minimizzato. Ad esempio perlopiù si ignora che il più probabile e verosimile antenato comune all'uomo di Neanderthal e a quello di Cro Magnon, l'uomo di Ceprano (soprannominato anche Argil) è stato ritrovato nel 1994 in Italia, a Ceprano, appunto. E' vero che questo reperto ha il difetto fondamentale di rendere più che mai inverosimile una filogenesi africana della nostra specie...

Un discorso a parte andrebbe fatto sulla questione degli ominidi, infatti, anche rimanendo in un'ottica strettamente evoluzionistica, l'origine africana degli ominidi, gli australopithecus come la famosa Lucy e tutti gli altri, non depone minimamente a favore della supposta origine africana della nostra specie, anzi per far passare questo discorso occorre ignorare, primo, il concetto di speciazione allopatrica; ossia è improbabile che una nuova specie si formi nel luogo d'origine dei suoi predecessori, ma è più verosimile che compaia con mutazioni che avverrebbero in una popolazione ristretta che ha colonizzato aree marginali, secondo, il considerevole iato temporale che separa la comparsa degli ominidi africani attorno a 4 – 5 milioni di anni fa e l'origine della nostra specie decine o centinaia di migliaia di anni fa, quindi un evento verificatosi in ogni caso a milioni di anni di distanza dal primo (ma qui credo che l'Out of Africa “giochi sporco”, nel senso che sfrutta la tendenza dell'uomo della strada a non fare troppo caso ai numeri e agli ordini di grandezza).

Ma, come è facile rendersi conto, questo discorso già traballante finisce a gambe all'aria nel momento in cui si vede che questi ominidi che secondo la teoria evoluzionista sarebbero stati i nostri lontani precursori, non erano affatto un'esclusiva dell'Africa. I resti di creature ominidi sono stati trovati ad esempio in India, e sono stati dati loro i nomi di ramapithecus e sivapithecus in riferimento a due divinità indiane, ma di ominidi a quanto pare ne abbiamo anche in Italia. In Italia sono noti dal 1875 i resti dell'Oreopithecus Bambolensis, una creatura antropoide, che furono trovati per la prima volta in una cava di carbone a Monte Bamboli in provincia di Grosseto. Pare che questa creatura, perlopiù classificata come scimmia antropomorfa, avesse una dentatura di tipo umano e fosse in grado di camminare eretta, cioè presentasse esattamente quelle caratteristiche che sono servite per diagnosticare in Lucy un precursore dell'umanità. Come se non bastasse, nel 1983 si parlò con un certo scalpore del ritrovamento di resti di australopiteco in Sicilia, poi della creatura battezzata australopithecus siculus non si parlò più per nulla, forse era troppo pericolosa per la “teoria” dell'origine africana.

Sommando tutto, considerando l'oreopiteco, l'australopiteco siciliano, l'uomo di Savona, quello di Ceprano, i neanderthaliani vecchi di un quarto di milione di anni, verrebbe da dire “Altro che Out of Africa, è semmai di Out of Italy che si dovrebbe parlare”, ma sappiamo che ai sostenitori di questa sedicente teoria, la veridicità dei fatti non interessa per nulla, quello che interessa loro, è spingerci a un atteggiamento di soggezione verso la presunta centralità delle origini africane, in modo che opponiamo meno resistenza possibile, o non ne opponiamo affatto, all'invasione di cui oggi siamo oggetto.

Nota: l'immagine che correda il presente articolo è una foto scattata a Trieste alla Casa del Combattente sabato 11 marzo, alla mia conferenza sulle Origini dell'Europa. Al tavolo dei relatori ci siamo Michele Ruzzai e io.

Una Ahnenerbe casalinga, quarantasettesima parte – Fabio Calabrese

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Riprendiamo adesso il nostro discorso sull'eredità degli antenati, verificando quali novità recenti o quali spinti di approfondimento siano emersi ultimamente.

Bisogna dire che era quasi inevitabile che a un periodo di intensa attività su queste tematiche come è stato quello dell'inizio del 2017, seguisse un periodo più vuoto. Sempre molto attivo e ricco di articoli e spunti interessanti per la riflessione sulle nostre origini, è il gruppo facebook MANvantara gestito dal nostro Michele Ruzzai, ma credo che non abbia senso copiare da esso, e sia meglio rimandarvi piuttosto alla lettura degli articoli in originale.

A meno, naturalmente, che non vi sia qualche spunto idoneo a essere sviluppato per un'analisi più approfondita.

A fine marzo sul gruppo è comparsa una recensione di Michele Ruzzai di un articolo di Michel B. Stringer, La comparsa dell'uomo moderno, pubblicato su “Le scienze” nel febbraio 1991, dove si evidenzia che “I dati molecolari a sostegno dell'origine subsahariana di Homo Sapiens in sé stessi non sono così evidenti, in quanto dipendono dal criterio adottato in partenza per interpretarli”. In poche parole, questo dogma della paleoantropologia, l'Out of Africa non è per nulla così certo come ci viene dato a intendere, tutto dipende dall'ottica in cui ci si pone, e in pratica non si finisce per trovare altro che quello che si cerca.

Tuttavia, l'aspetto che ora ci interessa maggiormente di questo scritto è l'albero genealogico della nostra specie disegnato da Stringer e che io ora qui riproduco. Non è qualcosa di completamente nuovo, l'avevo già riportato in una Ahnenerbe casalinga precedente, ma vi prego di osservare la parte destra dell'illustrazione, dove ho posizionato la freccetta rossa.

Si nota che oltre alle tre ramificazioni che da homo erectus-heidelbergensis portano all'uomo moderno, Neanderthal, Denisova, sapiens-Cro Magnon, ce n'è una quarta, più sottile, posizionata all'estremità destra del diagramma. Si tratterebbe di un sopravvissuto erectus  africano che, incrociatosi con sapiens gromagnoidi, avrebbe dato origine al tipo umano che conosciamo come nero subsahariano. Si tratterebbe di un antenato di cui non abbiamo evidenze archeologiche o paleoantropologiche, ma che ha lasciato la sua chiara impronta genetica nei suoi discendenti.

La rivista “Le scienze” (“Le scienze”, pensate che fonte di estrema, estremissima  destra!) del 2 agosto 2012 ha riportato un'intervista con Sarah Tishkoff dell'Università della Pennsylvania. La ricercatrice, che è considerata una delle massime autorità mondiali nel campo della genetica delle popolazioni, ed ecco cosa ci riferisce in proposito:

“[Vari studi genetici hanno rilevato la presenza di DNA neanderthaliano fra le popolazioni non africane] Ma non tra gli africani, che non avevano DNA neanderthaliano. Quando abbiamo applicato la statistica agli africani, in compenso, abbiamo visto molto dati che testimoniano incroci con un ominide che si è separato da un antenato comune circa 1,2 milioni di anni fa”.

Qualche decina di migliaia di anni fa nell'Africa subsahariana dunque si sarebbe verificato un incrocio tra popolazioni sapiens di tipo Cro Magnon e un homo erectus molto più antico, separatosi dalla linea principale della nostra specie qualcosa come un milione e duecentomila anni fa. I neri subsahariani, a quanto pare, sono il frutto di questa ibridazione e - tra parentesi – si vede quanto giusta sia a tale proposito l'osservazione del nostro Michele Ruzzai che la maggiore variabilità genetica rispetto ad altre popolazioni umane che si riscontra in Africa potrebbe essere SIA il prodotto di un'ancestralità della popolazioni nere (come affermano i sostenitori dell'Out of Africa) SIA di un meticciato relativamente recente, e la genetica conferma quest'ultima ipotesi, non solo, ma essendo il prodotto di un'ibridazione con un homo tanto antico, separatosi oltre un milione di anni fa dalla linea principale della nostra specie, il nero africano può essere considerato un vero e proprio passo indietro sulla via che porta a sapiens. Qui non si tratta di speculazioni tipo Ku Klux Klan, ma di inoppugnabili dati genetici, anche se si evita graziosamente di informare il grosso pubblico di simili scoperte.

Ultimamente in altri articoli di questa rubrica vi avevo esposto il concetto che l'antirazzismo, il cosiddetto antirazzismo si incammina lungo la china di tutte le altre utopie, che lo porta a capovolgersi nel suo esatto contrario, un razzismo basato su di un materialismo biologico che avrebbe fatto arrossire un positivista del XIX secolo, l'esaltazione della “pura linea” africana in confronto a noi europei e asiatici, ibridi di Neanderthal e di Denisova. Bene, un fatto che ho messo tra parentesi per non complicare troppo le cose, è che alla prova dei fatti rappresentata in questo caso dagli studi sul DNA, la “linea africana” si rivela tutt'altro che pura.

Un tema a cui sulle pagine di “Ereticamente” ho accennato più volte, è il razzismo di sinistra, il razzismo peggiore che possa esistere, che in pratica si traduce in un sistematico odio verso i propri connazionali. Ultimamente, ad esempio, hanno fatto un certo scalpore le dichiarazioni del ministro del lavoro Poletti secondo il quale i nostri giovani farebbero meglio ad andare a giocare a calcetto piuttosto che perdere tempo a cercare lavoro mandando in giro curricola. Poco tempo prima lo stesso individuo (per il quale è difficile usare parole grosse come “uomo” o “persona”), commentando il problema della fuga dei cervelli, cioè il fatto che i nostri giovani migliori sono costretti ad andare all'estero per trovare sbocchi lavorativi adeguati alle loro capacità, aveva commentato “Prima si tolgono di torno, meglio è”. In un Paese normale e in una situazione normale, dopo simili dichiarazioni, un ministro sarebbe stato costretto a dimissioni immediate, ma questo non c'è pericolo che succeda perché la sinistra che disgraziatamente governa l'Italia, e la stessa cosa vale per quella che oggi è la sua peggiore complice, la Chiesa cattolica, hanno fretta di veder scomparire gli Italiani nativi e sostituirli coi reflussi cloacali del Terzo Mondo.

Questo razzismo pratico trova il suo risvolto e il suo appoggio nel razzismo anti-bianco teorico, appunto nell'esaltazione della “pura linea africana” che esce dalla “teoria” dell'Out of Africa, nonché da echi del “buon selvaggio” rousseauiano, dalla cosiddetta antropologia culturale di Claude Levi Strauss e da altre farneticazioni di cui la sinistra si è abbondantemente nutrita e che rientrano puramente e semplicemente nella patologia di un pensiero che non ha nulla a che spartire con la realtà dei fatti.

Il testo di Stringer, che è del 1991, andrebbe aggiornato alla luce di scoperte più recenti. In particolare, bisogna ricordare che una ricerca genetica condotta dall'IBE (Istituto di Biologia Evolutiva) di Barcellona avrebbe individuato in tempi recenti nel DNA dei nativi delle isole Andamane e di altre popolazioni asiatiche le tracce di un altro antenato dell'umanità attuale oltre ai già conosciuti uomini di Cro Magnon, di Neanderthal, di Denisova nonché all'Homo africano di cui ho detto più sopra, e in tal modo gli antenati dell'umanità attuale salgono a cinque.

In tutto ciò, vorrei evidenziare, non c'è assolutamente nulla di strano o che contrasti in qualche modo con ciò che conosciamo e con le regole che valgono per il mondo animale. I nostri animali domestici, ad esempio, provengono spesso da una pluralità di antenati selvatici, anche perché in cattività si verificano facilmente incroci che allo stato selvatico avrebbero scarsa probabilità di avvenire, non fosse altro che per la distanza geografica fra le diverse popolazioni. Pensiamo per esempio ai nostri cani che sono certamente il prodotto dell'incrocio di diverse varietà di lupi (e forse anche di canidi diversi. Konrad Lorenz, ad esempio, sosteneva che nei nostri cani ci dovrebbe essere una discreta componente genetica derivata dallo sciacallo), da qui l'estrema variabilità genetica e fenotipica che i nostri fedeli amici presentano, oppure ai lama, frutto dell'incrocio di diversi camelidi andini quali il guanaco, l'alpaca, la vigogna. In questi casi, naturalmente capiamo che i limiti di una specie non sono stati realmente varcati, altrimenti l'ibrido sarebbe sterile come avviene per i muli. L'uomo, ci dicono gli etologi, è una specie che si è auto-addomesticata, e questo rende ancora più persuasiva l'analogia.

Tutto ciò non si concilia né con l'Out of Africa né con la favola di Adamo ed Eva raccontata dalla bibbia? Beh, ce ne faremo una ragione.

I dati della ricerca genetica più recente dimostrano che la nostra è una specie politipica nata dall'incontro di diversi antenati. Bene, è interessante vedere che il grande oracolo dei nostri tempi, Wikipedia dice esattamente il contrario.

Sull'enciclopedia on line che è divenuta un grande sunto, se non del sapere, quanto meno di quella che dovrebbe essere la Weltanschauung universale almeno nelle intenzioni di coloro che vogliono imporre a livello planetario il pensiero unico “politicamente corretto”, alla voce “Uomo”, (Homo sapiens) infatti leggiamo:

“L'attuale variabilità genetica della specie umana è estremamente bassa, comparativamente a quanto succede in altri raggruppamenti tassonomici animali. (...) la variazione del DNA umano è piccolissima se comparata con quella di altre specie (...). L'Homo sapiens è una specie monotipica”.

Non vi pare che in tutto questo discorso ci sia qualcosa di strano? Gli esseri umani presentano in maniera evidente differenze notevoli in termini di aspetto (dal colore della pelle – che non è la cosa più importante per individuare le appartenenze – alla taglia, ai lineamenti), di comportamento, di reazione agli stimoli, di tempi di maturazione sessuale e via dicendo, differenze che si notano spesso a colpo d'occhio. Tutto questo corrisponderebbe a una differenziazione genetica praticamente nulla?

Questa affermazione ripetutamente asserita (orwellianamente, una falsità ripetuta abbastanza a lungo e da fonti “autorevoli” finisce per diventare “la verità” comunemente accettata) ha una storia interessante. Nel 2001 un “ricercatore indipendente”, tale Craig Venter annunciò al mondo di aver portato a termine la mappatura del genoma umano e di aver scoperto che il DNA di tutti gli esseri umani esaminati era praticamente identico, con meno differenze, asserì, di quelle che è possibile rilevare all'interno di una tribù di una quindicina di antropoidi strettamente imparentati.

In seguito si è venuto a sapere che questa “scoperta” era un falso. Venter aveva sostenuto di aver esaminato il DNA di centinaia di persone provenienti da ogni parte del mondo, ma in seguito ai dubbi e alle obiezioni di altri ricercatori, ha dovuto confessare di non aver analizzato altro DNA che il proprio. Ovvio che somigliasse a se stesso ancor più di un parente stretto! Tanto per capire di che tipo si trattava, qualche tempo dopo è tornato alla carica sostenendo di aver creato la prima forma di vita completamente artificiale. Anche in questo caso è stato presto sbugiardato, non si trattava di “vita artificiale”, ma di un batterio nel cui DNA erano stati inseriti dei geni estranei, niente altro che un “volgare” OGM.

Ben presto, di un simile imbarazzante personaggio non si è parlato più, ma la favola che il DNA umano, di miliardi di individui diversissimi l'uno dall'altro che popolano questo pianeta, sia praticamente identico, è rimasta in circolazione, infatti come costui aveva sicuramente ben intuito, essa va incontro a un desiderio profondo della democrazia.

Non potendo abolire la natura, questo sistema “di pensiero” profondamente mistificato che conosciamo come democrazia, vorrebbe che essa fosse identica per tutti e quindi in ultima analisi irrilevante, che tutte le differenze che rileviamo fra gli esseri umani fossero dovute esclusivamente a fattori ambientali e culturali, e Venter le dava proprio questo.

La mistificazione di Venter s'incontra bene con quella di un altro presunto genetista, Richard Lewontin, che nel 1976 avrebbe “dimostrato” l'inesistenza delle razze umane sulla base di un “ragionamento” così fallace che verrebbe da chiedersi secondo il detto popolare se “ci è o ci fa” (io personalmente sono sicuro che “ci fa”). Poiché un qualsiasi gene dell'enorme quantità di essi che forma il DNA umano, può ritrovarsi in un qualsiasi gruppo umano purché scelto con sufficiente ampiezza, ecco dimostrato che le razze umane non esistono.

Si tratta, come altri genetisti hanno prontamente rilevato, di una fallacia che non tiene conto né della frequenza relativa con cui un determinato gene compare in determinati gruppi umani, né della correlazione fra i diversi geni, fatto importantissimo poiché in un organismo complesso come è quello umano, i geni che esprimono da soli un dato carattere fenotipico, sono pochissimi, e ciascuna delle nostre caratteristiche, dall'altezza all'intelligenza, è perlopiù determinata dalla sinergia fra una costellazione di geni.

Nonostante questo, si continua a sentir dire in giro, i media ripetono costantemente che “la scienza” avrebbe dimostrato l'inesistenza delle razze umane, il che è una totale e smaccata falsità.

Un piccolo particolare che rende la cosa ancor più sospetta: Richard Lewontin fa parte di quel gruppo etnico-religioso che pur costituendo a malapena lo 0,2-0,3% dell'umanità, è di fatto l'autore praticamente del cento per cento di quell'insieme di “idee” (di aberrazioni e mistificazioni) che conosciamo come modernità, dal marxismo alla psicanalisi, all'antropologia culturale. Ora, questo gruppo, mentre predica per tutti gli altri la bontà del meticciato, al suo interno pratica l'endogamia più rigorosa ed esclusiva  e mostra di considerare coloro che non appartengono a questo gruppo etnico-religioso, i “goym” allo stesso livello delle bestie.

Pur trattandosi di tre grossolane bufale, la truffa di Venter, la fallacia di Lewontin e l'Out of Africa, nel loro insieme costituiscono “la verità scientifica” che l'ortodossia democratica vuole imporre a livello planetario.

TRE MENZOGNE NON FANNO UNA VERITA' tranne che nell'universo orwelliano della democrazia dove appunto “la menzogna è verità” e “la schiavitù è libertà”.

Menzogne che attraverso la ripetizione ipnotica da parte del sistema mediatico hanno il preciso scopo di intontire le nostre coscienze e di non farci vedere o non farci dare importanza alla tragedia oggi in atto della sostituzione della popolazione europea con masse allogene di immigrati, l'eliminazione definitiva dei popoli d'Europa percepiti dal quel famoso 0,2-0,3% come una minaccia.

Sarà forse il caso di ricordare che proprio qui da noi a Trieste, alla Casa del Combattente, organizzata dal Circolo Identità e Tradizione e dall'Associazione Humanitas, sabato 8 aprile abbiamo avuto un incontro con Fabrizio Fiorini, direttore responsabile de “L'uomo libero” una delle più importanti e battagliere pubblicazioni della nostra Area, e che io ho avuto il piacere e l'onore di introdurre. Non a caso, l'ultimo numero della rivista è una monografia che s'intitola “La battaglia dei popoli per continuare a esistere”, perché dovrebbe essere ben chiaro a tutti che ormai non è più tempo di indugi e che la lotta definitiva per la sopravvivenza dei popoli europei è cominciata.

Una Ahnenerbe casalinga, quarantottesima parte – Fabio Calabrese

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La frustrazione in cui incorrono i naturalisti è un fenomeno piuttosto noto. Nel momento in cui scopriamo sempre nuove specie animali e vegetali che formano la ricchezza e la bellezza della vita sul nostro mondo, le vediamo scomparire per effetto dell'azione umana sulla biosfera, al punto che il lavoro dei naturalisti in ambienti ricchi di vita ma minacciati e fragili come sono ad esempio le foreste tropicali, diventa una specie di corsa per arrivare a scoprire e catalogare nuove specie prima che l'inquinamento e la deforestazione le trascinino nell'estinzione.

Studiando le nostre origini, il passato della nostra specie, capita di avvertire una frustrazione dello stesso genere. Prescindiamo dal fatto che questo genere di ricerche è ovviamente malvisto dalla “cultura” democratica che cerca di imporre forzatamente il dogma dell'uguaglianza, ma proprio mentre scopriamo la ricchezza e la complessità della nostra storia grazie anche a strumenti di indagine un tempo non disponibili come la ricerca sul DNA, assistiamo a un imponente tentativo di cancellare la diversità umana attraverso l'imposizione del meticciato a livello planetario, un piano nemmeno tanto occulto per portare all'estinzione la parte dell'umanità più intelligente e creativa, quella caucasica di cui noi stessi facciamo parte.

Per un altro verso, è sorprendente come questo quadro che possiamo tracciare delle nostre origini e della storia della nostra specie si arricchisca sempre di più. Io stesso anni fa sarei stato lontano dal credere che questi miei scritti su “Ereticamente” si sarebbero potuti trasformare in una sorta di rubrica più o meno fissa.

Ho appena finito di lamentarmi la volta scorsa del fatto che lo scenario appare un po' vuoto a confronto di quello d'inizio d'anno che, quasi in risposta alla mia invocazione, è arrivata “una botta” di novità e segnalazioni sui siti “di Area”. Questo interesse per le tematiche delle origini è molto importante, segna la differenza tra noi e una “cultura” che vorrebbe annullare qualsiasi differenza fra gli esseri umani e chiuderci gli occhi di fronte alla sparizione delle etnie europee. Noi non abbiamo i mezzi per contrastare sul suo stesso piano una “cultura” mediatica che avvelena la gente di falsità ideologiche, a cominciare dalla scuola e poi, in crescendo, attraverso tutto il sistema della cosiddetta informazione, ma è importante formare nei nostri ambienti un'élite intellettualmente preparata e consapevole, “portare avanti lo zaino”, come diceva il grande Gianantonio Valli.

Quelli che andiamo a vedere, sono ulteriori tasselli che si inseriscono in un puzzle le cui linee generali ci sono ormai chiare, ma di cui siamo in grado ora di dare nuove conferme peraltro importanti: diciamo che emerge con sempre maggiore chiarezza l'insostenibilità dell'Out of Africa, la “teoria”, ma sarebbe meglio dire la bufala che il dogmatismo democratico vorrebbe imporre come interpretazione “ufficiale” delle nostre origini, ed emerge sempre più nettamente il fatto che quella umana è una specie politipica al cui interno esistono evidenti differenze non solo di aspetto esteriore e di comportamento, ma anche chiare disomogeneità genetiche che di sicuro non sono riconducibili all'influenza dell'ambiente, che discendiamo da una pluralità di antenati variamente etichettati come pre-sapiens.

Una volta di più, mi rifaccio all'eccellente lavoro di documentazione portato avanti dal gruppo facebook “MANvantara” gestito dal nostro ottimo amico Michele Ruzzai. Qui in data 24 marzo un collaboratore ha segnalato una comunicazione già apparsa su ANSA.it lo scorso 28 luglio (come sempre, occorre dire che se non assumesse grazie a queste persone la dimensione di un lavoro collettivo, la nostra ricerca sarebbe estremamente improba, perché “la rete” è un mare magnum, e l'universo delle pubblicazioni scientifiche lo è ancora di più, e non sempre ciò che è davvero rilevante emerge con facilità. Io spero che perdonerete l'intervallo di parecchi mesi).

Una ricerca condotta da Erik Trinkhaus della Washington University di St.Louis con l'ausilio della microtomografia, ha dimostrato la presenza in un cranio umano proveniente dal nord della Cina, datato a 100.000 anni fa e dalle caratteristiche sapiens moderne (Un momento, ma la teoria “classica” non prevedeva che i sapiens moderni avessero cominciato a diffondersi per il nostro pianeta provenendo dall'Africa non prima di 70.000 anni fa, dopo la presunta catastrofe dell'eruzione del vulcano indonesiano Toba? Mistero!) di canali semicircolari e labirinto dell'osso temporale in una conformazione finora ritenuta tipica dell'uomo di neanderthal, al punto da essere stata usata spesso in passato per decidere se classificare frammenti cranici umani come neanderthaliani o sapiens moderni.

  Noi abbiamo visto che questo nostro antenato da cui noi, noi europei ma non gli africani, abbiamo ereditato una frazione non trascurabile del nostro patrimonio genetico, l'uomo di neanderthal, in passato l'abbiamo gravemente sottovalutato, quest'uomo che costruiva probabilmente per motivi di culto circoli di stalagmiti nella profondità delle caverne, che conosceva i principi degli antibiotici e degli antidolorifici. Ora abbiamo una prova in più del fatto che fra lui e il sapiens “moderno” ci poteva essere una differenza razziale, ma non di specie.

Rimanendo sempre in questo orizzonte temporale delle più remote origini umane, e parlando sempre di informazioni sparse nella rete che riviste oggi alla luce di altre informazioni, acquistano una rilevanza ben maggiore, sempre in “MANvantara”, stavolta del 14 aprile, il nostro Michele Ruzzai ha “ripescato” un articolo pubblicato sul sito di “Le scienze” oltre 10 anni fa, ma che oggi si presta a una “lettura” molto più pregnante, La straordinaria diversità dei melanesiani, pubblicato in data 28 febbraio 2007.

Secondo quanto è qui riportato, l'antropologo Jonathan Friedlander della Temple University di Philadelphia ha studiato per 15 anni il DNA mitocondriale, quello che si eredita per via materna, delle popolazioni melanesiane, giungendo alla conclusione che esso presenta della caratteristiche uniche che non si ritrovano in alcuna altra parte del mondo.

Noi oggi siamo in grado di ipotizzare che questa differenza non derivi solo dall'isolamento in cui queste popolazioni vivono, ma vi si può ipotizzare la traccia genetica o dell'ancora poco conosciuto uomo di Denisova o del “quarto antenato” (diverso da Cro Magnon, Denisova e Neanderthal) le cui tracce genetiche sarebbero state individuate in alcune popolazioni asiatiche dai ricercatori dell'IBE (Istituto di Biologia Evolutiva) di Barcellona. Senza considerare anche il fatto che questo “quarto antenato” sarebbe in realtà un quinto, considerando anche l'incrocio con un homo vecchio 1,2 milioni di anni, da cui sarebbero derivate le popolazioni africane.

In ogni caso si vede bene, come tutto ciò rafforzi la convinzione che le origini della nostra specie siano complesse e molto distanti dalla semplicistica formulazione dell'Out of Africa.

La questione delle origini, l'abbiamo visto più volte, si situa a diversi livelli. Dopo la questione più generale e remota dell'origine della nostra specie, si situa certamente quella dei popoli europei e indoeuropei. Occorre innanzi tutto sottolineare un fatto: noi possiamo ovviamente discutere su quali popolazioni di ceppo caucasico che hanno popolato l'Europa dalla remota preistoria a oggi appartenessero alla variante indoeuropea, parlassero lingue appartenenti a questa famiglia linguistica, e quali appartenessero invece a una diramazione diversa, per acquisire magari poi in epoca storica un linguaggio indoeuropeo come effetto della conquista e della dominazione da parte di altre popolazioni, ma resta il fatto primario e incontrovertibile che da decine di migliaia di anni l'Europa è popolata da genti di ceppo caucasico, con una compattezza etnica che non si ritrova in altre parti del nostro pianeta, e questa compattezza etnica è la molla che ha messo l'Europa per millenni alla testa della civiltà umana. Bene questo è proprio ciò che oggi si vuole distruggere con la creazione dovunque di una società multietnica, cioè ibrida e imbastardita, un situazione assolutamente innaturale, che non ha precedenti nella storia, e dalla quale abbiamo già visto che ci possiamo aspettare solo tragedie.

I democratici, gli antirazzisti, coloro che sostengono che noi possiamo trarre un qualche beneficio dal mescolamento etnico, o sono in malafede, o sono dei folli completamente al di fuori della realtà, anche se le due possibilità non si escludono necessariamente a vicenda.

Tutto ciò va tenuto presente assieme al fatto che l'essenziale non è parlare una lingua indoeuropea, ma appartenere al ceppo caucasico, altrimenti dovremmo considerare un afroamericano “un germanico”.

In questa chiave, nel tentativo di decifrare le origini pre- e proto-indoeuropee del nostro continente, sempre nell'ambito di un popolamento indiscutibilmente caucasico, va letto il testo di Elisabeth Hamel, Theo Vennemann e Peter Foster La lingua degli antichi europei pubblicato in “Le scienze” del luglio 2002, ma recensito dal nostro Michele Ruzzai su “MANvantara” lo scorso 23 marzo. Qui si formula un'interessante ipotesi linguistica, quella che è stata denominata “vasconica”: circa 18.000 anni fa, partendo dalla zona pirenaica vi sarebbe stato un antico popolamento accompagnato da un'espansione linguistica che avrebbe interessato la Penisola iberica, la parte occidentale della Francia, le Isole Britanniche, e di cui gli attuali Baschi sarebbero il residuo. Gli autori connettono questo antico popolamento alla cultura magdaleniana.

Il dato più importante, però, fa rilevare Ruzzai, è che la maggior parte del nostro patrimonio genetico risale al paleolitico superiore e non al neolitico, il che sbarra la strada a qualsiasi ipotesi di derivazione degli Europei e degli Indoeuropei dal Medio Oriente come supposto dalla teoria nostratica, ampiamente sconfessata dai dati della genetica (anche se, come nel caso dell'Out of Africa, si evita di farlo sapere in giro).

Il lavoro che il nostro amico e gli altri collaboratori del gruppo (con l'eccezione, ovviamente, dei miei articoli) stanno conducendo su “MANvantara” non si può definire altro che eccellente, ma non si tratta dell'unica voce che c'è in questo momento sulla scena, dell'unica cosa che meriti seguire. Un gruppo parallelo e molto simile è “Frammenti di Atlantide-Iperborea” gestito da Solimano Mutti. In data 14 aprile, Mutti ha condiviso in questo gruppo un interessante articolo di Alexander Dugin su Herman Wirth (il titolo del testo, che è in inglese, si può tradurre come Le rune, il grande yule e la patria artica). Il motivo di interesse di questo articolo è doppio; infatti Alexander Dugin è oggi un po' l'ideologo della nuova Russia post-comunista di Putin, ed evidenzia molto bene il fatto che la riscoperta dell'identità profonda dei popoli europei è oggi uno strumento essenziale per opporsi alla valanga democratica-liberal-mondialista che tutto vorrebbe sommergere e costringere entro le pastoie del pensiero unico, ed Herman Wirth è stato una figura chiave della Ahnenerbe nazionalsocialista e uno dei più importanti sostenitori dell'origine artica della nostra specie, in contrasto con l'ipotesi africana “democraticamente” imposta (anche in spregio ai fatti) che come sappiamo, oggi va per la maggiore.

L'opera più importante di Wirth, Der Aufgang der Menschheit, L'aurora dell'umanità, non è mai stata ripubblicata in Italia in questo dopoguerra, ma nel 2013 la Effepì ne ha ripubblicato l'introduzione. Guarda caso, una recensione di questa pubblicazione, ad opera – indovinate un po' – del nostro infaticabile Michele Ruzzai, è apparsa su “MANvantara” in data 10 aprile.

Un livello più vicino a noi riguarda l'origine degli Italici, e anche qui è davvero sorprendente quante sciocchezze e quante falsità siano state ricamate e continuino a essere ricamate dalla propaganda di regime democratica, pretendendo che il nostro popolo abbia una totale incoerenza dal punto di vista etnico-ereditario-genetico. Questo, lo sappiamo, è totalmente falso, l'ennesima menzogna della democrazia per indurci ad accettare la sparizione della nostra gente nel diluvio multietnico. Gli Italici, lo sappiamo, sono una componente del ceppo indoeuropeo insediati nella nostra Penisola da tempo immemorabile e ben prima della nascita dello stato romano, una realtà che dal punto di vista etnico-genetico, le invasioni e le dominazioni che l'Italia ha subito nei secoli tra la caduta di Roma e il risorgimento, hanno modificato ben poco, essendo perlopiù questi invasori assolutamente esigui in termini numerici. Questa è la pura e semplice verità, e il resto sono frottole nelle quali le smanie separatiste di questo e di quello si mettono senza accorgersene al servizio del potere mondialista, che intende far sparire come nazione noi e gli altri popoli europei.

Ricordo un bell’articolo di Maurizio Blondet di diversi anni fa, in cui l’autore, analizzando il significato del motto SPQR “Senatus popolusque romanus”, faceva notare che “populus” in latino viene da “populor”, “saccheggiare”, “devastare”, e il termine in origine indicava i giovani che venivano allontanati dai villaggi durante la Primavera Sacra a cercare di fondare altrove nuove comunità o a vivere la vita dei briganti e dei predoni. Il motto adombrerebbe un episodio nel quale i giovani fuorusciti sarebbero rientrati con la forza nella Roma delle origini imponendosi agli anziani, il “senatus”. Ci appare l’immagine di una romanità ancestrale forse meno “civile” ma più ricca di energie vitali (senza le quali non sarebbe mai potuta diventare un impero esteso dalle Isole Britanniche all’Arabia) di quel che forse avevamo immaginato, più simile allo spirito “barbarico” degli antichi Celti e Germani.

Il problema è se oggi questa povera nostra Europa intossicata di democrazia, marxismo e cristianesimo possa essere in grado di ritrovare questo “barbarico” spirito vitale, quando vediamo persino i discendenti dei vichinghi piegarsi all’arroganza islamica in casa loro. Non è forse un caso che il 18 aprile Luigi Leonini, un altro di quegli amici senza i quali tenere questa rubrica risulterebbe estremamente difficoltoso, ha postato in internet un bell’articolo di Guillaume Faye già apparso su “ComeDonChisciotte”, dove si enuncia un concetto molto importante: La guerriglia etnica è cominciata. Per ora si parla della Francia, ma non c’è dubbio che il resto dell’Europa seguirà a ruota. In poche parole: tra gli atti di terrorismo jihadista e la violenza e la criminalità spicciole che gli invasori sedicenti immigrati praticano a ogni livello dovunque mettano piede, favoriti dal buonismo suicida democratico-cristiano-marxista, esiste una sostanziale continuità, e il messaggio è estremamente chiaro: “Questa non è più la vostra terra, è terra nostra”.

Rimane solo da sapere se noi Europei vogliamo sparire nell’ombra in silenzio, o se vogliamo combattere per difendere l’eredità degli antenati e il futuro dei nostri figli.

NOTA

La prima illustrazione che correda questo articolo è un'immagine composita. Vediamo a sinistra l'immagine di copertina del gruppo facebook “Frammenti di Atlantide-Iperborea”. In modo non diverso da “MANvantara”, si tratta anche in questo caso di un'aurora boreale. L'altra immagine è la copertina dell'introduzione a L'aurora dell'umanità di Herman Wirth pubblicata dalla Effepì.

Nella seconda illustrazione, l'immagine a sinistra è la ricostruzione delle fattezze di un uomo di Neanderthal (una ricostruzione recente, tratta da un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del dicembre 2014), a destra abbiamo invece un'odierna “risorsa” africana. Secondo la “teoria” dell'Out of Africa, il primo sarebbe un ominide estinto privo di connessioni con noi; il secondo invece il tipo più vicino al modello ancestrale del vero homo sapiens moderno da cui tutti noi discenderemmo.

Una Ahnenerbe casalinga, quarantanovesima parte – Fabio Calabrese

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Questo nuovo numero della nostra Ahnenerbe casalinga, della nostra ricerca dell'eredità degli antenati si pone su di un piano di stretta continuità con la quarantottesima parte.

Oramai, io penso, il quadro che possiamo tracciare delle nostre origini, che abbiamo disegnato in tutti questi anni, è chiaro, i suoi punti salienti sono, come sappiamo, la dimostrazione della falsità della “teoria” dell'Out of Africa, a cui va invece contrapposta quella dell'origine boreale della nostra specie, della falsità di quell'altra cosiddetta teoria del nostratico, che vorrebbe i popoli indoeuropei provenienti dal Medio Oriente e la diffusione delle lingue indoeuropee nel nostro continente il risultato dell'espansione di comunità di agricoltori di origine mediorientale (il che abbiamo visto, non solo non trova riscontro nella genetica, ma l'origine mediorientale dell'agricoltura è fortemente discutibile), quando invece essa appare collegata all'espansione di cavalieri e allevatori delle steppe eurasiatiche.

Abbiamo visto, e ci siamo soffermati molto su questo punto, che del pari vanno rifiutate tutte quelle interpretazioni che tenderebbero a far risalire l'origine della civiltà europea a fattori esogeni, piuttosto che alle capacità creative degli Europei stessi, e infine per quanto riguarda le nostre origini come italici, abbiamo visto che la nostra nazione esiste dal punto di vista genetico, e non è come vorrebbe la vulgata “democratica” e pro-invasione un puzzle di genti provenienti da ogni parte del mondo, ma un popolo rientrante nella famiglia indoeuropea, con una precisa identità genetica, oltre che storica e culturale.

Rispetto a questo quadro ormai ben delineato, non ci sono da aspettare novità che possano sconvolgerlo radicalmente, ci sono semmai tasselli da aggiungere per rendere il quadro delle nostre origini sempre più preciso e completo o, se vogliamo, una serie di conferme.

Come già la quarantottesima che l'ha preceduta, questa parte sarà per così dire “di servizio”, un aggiornamento di ciò che è comparso recentemente riguardo alla tematica delle origini sui siti “di area”, e diciamo subito che è un fatto importante che nei nostri ambienti la sensibilità riguardo a queste questioni sia sempre viva, è il miglior modo di contrapporsi, di marcare la distanza rispetto a una “cultura” mondialista che vorrebbe fare di tutti noi degli sradicati senza identità per poterci manipolare a piacere.

Un concetto che forse è l'occasione giusta per ribadire, è che noi non siamo estremisti perché non siamo l'estremità di nulla, siamo i portatori di una visione del mondo radicalmente contrapposta a quella democratica-liberal-marxista oggi imposta ai popoli europei per favorirne l'estinzione.

Andando dal demo-liberal all'americana e spostandosi man mano verso sinistra fino ai Centri Sociali, noi troviamo una radicalizzazione di metodi e di obiettivi, ma tutti quanti – possiamo dire – partecipano in ultima analisi della stessa visione del mondo caratterizzata dall'illusione progressista, dal disinteresse per le origini e l'identità etnica dei popoli, dalla concezione dell'uomo come individuo atomizzato mosso soltanto dai puri meccanismi economici e dalla ricerca del soddisfacimento delle pulsioni elementari, ciò che appunto vogliono farci diventare attraverso una pedagogia che è una profezia che si auto-adempie. Già alla nostra “immediata sinistra” (e perdonatemi questo certamente improprio linguaggio parlamentare), troviamo una destra conservatrice con cui non abbiamo nulla a che spartire.

E' appunto in relazione a quest'ottica che va collocato il permanente interesse per le nostre origini, le nostre radici, la nostra identità, interesse che non è erudito e accademico, ma è un fatto politico.

E' quasi inevitabile, ma anche questa volta cominciamo dal nostro amico Michele Ruzzai che in data 25 aprile (evidentemente anche in questa data si può fare qualcosa di meglio che celebrare la sedicente “resistenza”, il servilismo della parte peggiore del nostro popolo nei confronti degli invasori vincitori del secondo conflitto mondiale), ha riproposto nel gruppo facebook “Frammenti di Atlantide – Iperborea” un suo post già pubblicato su “MANvantara” in data 21 febbraio 2016.

(Anche questa – per inciso – è una cosa importante, il fatto che fra i vari gruppi e le presenze dell'Area si crei un clima di sinergia piuttosto che di concorrenza e antagonismo).

Questo post è la sintesi di un articolo di Giampiero Petrucci pubblicato su MeteoWeb il 17 dicembre 2012, e riguarda la cosiddetta frana di Storegga, un evento geologico di vasta portata che si sarebbe verificato circa 8.000 anni fa: un'immensa frana sottomarina che avrebbe colpito il Mare del Nord e l'Atlantico settentrionale provocando un enorme tsunami che avrebbe investito le coste della Norvegia, della Scozia, delle Faer Oer, delle Shetland fino al Circolo Polare, l'Islanda e la Groenlandia, nonché altre terre allora emerse (ricordiamo che in età glaciale il livello degli oceani era considerevolmente più basso) in corrispondenza di quello che oggi è il Banco di Rockall, forse la Avalon delle leggende celtiche, forse Atlantide ricordata da Platone.

Questo gigantesco tsunami dovette provocare una migrazione massiccia verso sud-est delle popolazioni costiere interessate. Si tratterebbe della “migrazione trasversale” di cui hanno parlato sia Hermann Wirth sia Julius Evola, e che avrebbe avuto un ruolo chiave nella diffusione delle lingue indoeuropee sul nostro continente.

Una tappa importante di questo processo migratorio sarebbe stata una terra all'epoca sicuramente emersa e oggi sommersa dall'innalzamento degli oceani, che si trovava fra le Isole Britanniche e la Danimarca in corrispondenza dell'attuale Dogger Bank e che gli archeologi hanno denominato Doggerland.

Tuttavia, il punto centrale della questione che l'amico Michele Ruzzai giustamente rimarca, è forse un altro: la “direttrice di marcia” di questa migrazione coincide con la diffusione di quella che il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza ha chiamato “la prima componente principale” del patrimonio genetico delle popolazioni europee. Ora, bisogna tenere presente che mappando le componenti genetiche di una popolazione, noi ne otteniamo una rappresentazione bidimensionale: possiamo cioè vedere che in questo caso la componente si è diffusa lungo la direttrice da nord-ovest a sud-est o viceversa, ma non siamo in grado di dire quali siano i punti di partenza e di arrivo, conosciamo la direzione ma non il verso.

Ovviamente, in obbedienza all'ortodossia “scientifica” dominante, Cavalli-Sforza fa partire la diffusione della prima componente principale non da nord-ovest, ma da sud-est, essa sarebbe cioè il risultato dal punto di vista genetico, della colonizzazione dell'Europa da parte di quei famosi quanto fantomatici agricoltori di origine mediorientale previsti (o immaginati) dalla “teoria” del nostratico. Ebbene, fa notare Michele Ruzzai, non solo ciò non può essere provato, ma il punto d'origine della migrazione viene a essere del tutto incongruo, se consideriamo tale l'estremità sud-orientale invece di quella nord-occidentale, infatti esso verrebbe a cadere non nella Mezzaluna Fertile, ma nel deserto arabico, un'area che non può aver mai ospitato popolazioni umane numericamente consistenti.

Ma sappiamo che in democrazia “la scienza” non serve a ricercare la verità, ma a riconfermare i dogmi democratici stessi, per quanto assurde possano essere le loro implicazioni.

In data 11 maggio, il sito GenealogiaGenetica ci racconta una storia davvero interessante: la società svizzera iGENEA avrebbe portato a termine l'analisi del DNA della mummia del faraone Tutankhamon ottenendo dei risultati davvero sorprendenti.

Come è noto, questo giovane faraone, salito al trono bambino e morto a un'età compresa fra i diciotto e i diciannove anni, non ha avuto molto peso nella storia egizia, ma il ritrovamento della sua tomba a opera di Howard Carter, tomba che, miracolosamente sfuggita ai saccheggiatori che hanno operato per millenni nella Valle del Nilo, ci ha restituito uno splendido corredo funerario praticamente intatto, ne ha fatto il faraone più conosciuto e popolare, al punto da oscurare la fama di grandi condottieri come Ramesse II.

Ebbene, le analisi del suo DNA condotte dalla iGENEA dimostrano che il giovane faraone era portatore dell'aplogruppo R1b1a2 del cromosoma Y, vale a dire quello tipico delle popolazioni dell'Europa occidentale. E' una prova in più, che si affianca a numerose altre. Ricorderete che tempo addietro avevamo parlato di un esame della mummia di Ramesse II, a differenza di Tutankhamon morto a tarda età, ultraottantenne sembra, che aveva rivelato che il faraone negli ultimi anni si tingeva i capelli con l'henne, ma da giovane doveva averli biondo-rossicci. Non si possono ormai nutrire dubbi sul fatto che l'antica élite egizia rappresentasse un tipo umano nettamente diverso dal resto della popolazione, avesse cioè origini europee, e questo spiega lo strano mistero di una civiltà che sembra nascere adulta, e poi nel corso della sua storia non conosce ulteriori evoluzioni, ma semmai una progressiva decadenza (ad esempio, si perdono le tecniche relative alla costruzione delle piramidi, i cui esempi appartengono tutti alla fase più antica della storia egizia), che noi possiamo ipotizzare parallela all'affievolirsi del sangue di origine europea nelle sue classi dominanti.

E' sempre più chiaro che storici e archeologi “ufficiali” che ipotizzano un'origine mediorientale della civiltà, un'influenza mediorientale sulla civiltà europea, girano (volutamente?) il binocolo dalla parte sbagliata: è semmai un'influenza e un apporto etnico a livello di élite, sull'Egitto ma non solo sull'Egitto, ci sono indizi che fanno pensare che per l'area mesopotamica valga esattamente lo stesso discorso, dell'Europa sul Medio Oriente.

Io non vorrei che si pensasse che io ritenga tutto quello che scrivo di una particolare rilevanza solo perché porta in calce la mia firma, ma solo per completezza dell'informazione, vi informo che un uno dei prossimi numeri de “L'uomo libero”, la bella rivista fondata da Mario Consoli e oggi diretta da Fabrizio Fiorini, sarà pubblicato il testo della mia conferenza “Alle origini dell'Europa”, da me tenuta qui a Trieste alla Casa del Combattente sabato 11 marzo. Il motivo per cui non mi è sembrato opportuno proporre questo testo su “Ereticamente” è semplice, perché in realtà ve lo trovate già pubblicato, si tratta della giustapposizione dei due primi articoli della serie Ex Oriente Lux, ma sarà poi vero?

Questa conferenza si è posta in una situazione di continuità rispetto alle due tenute da Michele Ruzzai il 27 gennaio e il 24 febbraio, che hanno trattato rispettivamente de Le radici antiche degli Indoeuropei e Patria artica o madre Africa?

 Precisamente nell'ottica di un completamento di questa rassegna sulla tematica delle origini, è previsto che io tenga un'altra conferenza, dedicata stavolta alle nostre origini italiche.

A un livello più vicino a noi, infatti, c'è un'altra menzogna “democratica” e “politicamente corretta” che i media di regime, fra i quali vanno sciaguratamente comprese anche le istituzioni scolastiche, cercano di instillarci a tutti i costi, l'idea che gli Italiani sarebbero un popolo meticcio, frutto di innumerevoli innesti di popolazioni provenienti da ogni dove. Questa è una smaccata falsità che ha il preciso scopo di darci a intendere (di illuderci) che la massiccia immigrazione di cui oggi siamo oggetto (vittime!) in ultima analisi non cambierebbe un granché.

Si tratta di qualcosa di cui abbiamo già parlato più volte, denunciandone la “democratica” falsità. Le invasioni e le dominazioni che la nostra Penisola ha disgraziatamente subito nel corso dei secoli tra la caduta dell'impero romano e il risorgimento, hanno sempre rappresentato un apporto etnico-genetico del tutto trascurabile o inesistente, anche perché l'assoggettamento politico è una cosa, la colonizzazione da parte di un invasore tutta un'altra, e questo è un destino che ci è stato finora risparmiato.

Il popolo italiano (ma forse sarebbe meglio dire italico, perché quella che conta è l'appartenenza etnica, di sangue, mentre la cittadinanza burocratica, l'aver scritto “Repubblica italiana” su un pezzo di carta vale meno di nulla), è un popolo appartenente al ceppo delle genti indoeuropee, che ha una sua coerenza etnica e una sua fisionomia che si sono mantenute nei millenni da già prima della formazione dello stato romano, ed è questa coerenza etnica la base a partire da cui si sono sviluppate la cultura e la civiltà italiane, la nostra eccellenza in campo artistico e culturale.

Anche a questo riguardo, forse non servirebbe ribadirlo una volta di più ma repetita iuvant, c’è un’altra menzogna prodotta da quell’apparato di imposture e veleni che conosciamo come democrazia, che occorre decisamente smentire, la presunzione che la creatività delle culture umane e la civiltà nascerebbero dall’incontro e dall’ibridazione tra culture diverse: l’ibridazione e il meticciato possono produrre solo popoli parassiti in grado di impadronirsi, di riciclare ciò che è stato fatto da altri, ma incapaci di per sé di creare alcunché: la massa ibrida di sradicati di sangue misto che oggi popola (o impesta) quel deserto intellettuale che si trova tra Messico e Canada ne è un chiaro esempio, e non si può considerare altrimenti che con orrore la prospettiva che anche l’Europa si appresta a essere ridotta allo stesso modo.

Io credo che il quadro teorico, la realtà dei fatti e delle conoscenze che possiamo opporre alle menzogne della sedicente democrazia, menzogne che non sono altro che un veleno soporifero inteso a favorire la nostra scomparsa per sostituzione etnica, sia ormai abbastanza chiaro. Quello che conta ancora veramente sapere, è se abbiamo la forza e la volontà, e saremo capaci di mobilitare le energie necessarie per evitare questo destino a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri discendenti.

NOTA: Nell'illustrazione che correda questo articolo, da sinistra: la frana di Storegga, la maschera funeraria del faraone Tutankhamon, e la locandina della mia conferenza.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantesima parte – Fabio Calabrese

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Cinquanta, cifra tonda: un obiettivo che solo qualche anno fa avrei detto impossibile da raggiungere. Io penso che capirete e sarete d'accordo con me, se questa volta dedicheremo questo capitolo della ricerca delle nostre origini a una riflessione sul lavoro sin qui svolto, che non vuole essere auto-celebrativa, ma un soffermarsi considerando la strada trascorsa, un riprendere fiato per slanciarsi di nuovo in avanti, ben sapendo che non è il caso di riposare sugli allori, e che il cammino davanti a noi è ancora impervio.

Io vorrei per prima cosa ringraziare un lettore che tempo fa in un commento ha espresso il concetto che in effetti in questa mia piccola Ahnenerbe non ci sarebbe nulla di casalingo se con questa parola vogliamo intendere qualcosa di dilettantesco. Lo ringrazio, ma penso che il mio modesto lavoro non si possa certo confrontare con quello che è stato proprio della Società Ahnenerbe del Terzo Reich, gli ingenti mezzi che lo stato tedesco di allora impiegò nell'indagine sull'eredità degli antenati. Il mio è un lavoro personale, one man's band, anche se difficilmente senza la ricchezza di tematiche offerte dal web e le segnalazioni di alcuni volonterosi amici, sarei riuscito a portarlo avanti.

Io penso che sia persino superfluo ribadire il concetto che questo lavoro non ha per nulla delle finalità accademiche: l'idea del nostro passato, della storia percorsa dalle remote origini a quel che siamo noi oggi, è una componente essenziale dell'idea che abbiamo di noi stessi, che a sua volta è la premessa dell'agire attuale, in politica e in tutti i campi. Da questo punto di vista, dovrebbe essere chiaro che quel che ci viene presentato e ammannito, ribadito in tutte le occasioni da un imponente sistema mediatico-propagandistico, non è “scienza” in campo storico-antropologico, se per scienza intendiamo un sapere nato dalla ricerca onesta e disinteressata della verità, ma è piuttosto un più o meno abile sistema di mistificazioni il cui scopo è quello di legittimare il potere “democratico” che ci domina.

Tralasciamo qui  - per carità - la questione filosofica se sia o meno attingibile all'uomo la verità in senso assoluto o se ogni nostra conoscenza, ogni nostra verità sia in ogni caso parziale e soggettiva. Diciamo che perlomeno c'è una differenza fra gli esiti di una ricerca del vero imparziale e disinteressata e una frode deliberata o una conclusione distorta a cui può arrivare un ricercatore anche in buona fede cui sono state fornite premesse e modi di pensare fraudolenti che lo fuorviano.

Noi possiamo vedere la tematica delle origini come una sorta di imbuto rovesciato: tanto più si allarga, quanto si risale indietro nel tempo.

Io non mi sono occupato, e non mi sembra il caso di farlo ora, di questioni vaste e remote come l'origine dell'universo, del sistema solare o della vita sulla Terra, questioni forse al di là della nostra portata. Il problema delle origini nella nostra ottica mi pare si possa suddividere in quattro livelli: l'origine della specie umana, quella dei popoli indoeuropei, l'origine della civiltà sul nostro continente, e – questione spesso trascurata sebbene ci tocchi da vicino – quella della nazione italiana, della nostra identità, in definitiva, come genti della Penisola italica.

Vediamo al riguardo cosa ci racconta la “scienza” ufficiale, vale a dire l'ortodossia di regime:

Riguardo alla prima tematica, la vulgata che ci viene imposta è oggi rappresentata dall'Out of Africa, la “teoria” secondo la quale la nostra specie si sarebbe originata sul continente africano, e il nero subsahariano rappresenterebbe il modello ancestrale dal quale tutti noi discenderemmo. Riguardo all'origine dei popoli indoeuropei, l'ortodossia di regime sostiene la tesi che saremmo i discendenti di agricoltori di origine mediorientale-anatolica che si sarebbero man mano espansi verso il nord e l'ovest alla ricerca di nuove terre da coltivare.

L'origine della civiltà, sostiene sempre l'ortodossia di regime, ed è questa la versione canonica che trovate su tutti i libri di testo e che ci viene continuamente ripetuta dal sistema mediatico, si situerebbe nella cosiddetta Mezzaluna Fertile a cavallo tra Egitto e Mesopotamia, e solo tardivamente avrebbe raggiunto l'Europa attraverso un complicato passaparola tra Egizi, Mesopotamici, Fenici, Ebrei, Persiani, Minoici, Greci, Romani.

L'Italia, infine, ci viene dato a intendere, sarebbe una terra a cui una struttura geografica molto ben definita avrebbe dato una coerenza e una continuità attraverso i secoli, e dove le genti che l'abitano avrebbero sviluppato una cultura comune, ma si vuole che non rappresenterebbe alcunché di coerente dal punto di vista etnico e genetico.

Si tratta di quattro menzogne, non solo, ma di quattro menzogne che hanno uno scopo preciso, quello di darci un'immagine sminuita di noi stessi allo scopo di indebolire la resistenza alla sostituzione etnica, alla sparizione che il potere mondialista ha decretato per noi Italiani e per noi Europei.

Cominciamo con l'Out of Africa: si tratta di una “teoria” che non può in nessun modo essere considerata scientifica, è per ammissione dei suoi stessi formulatori, un costrutto ideologico creato allo scopo di “battere il razzismo”, “razzismo” che poi nel linguaggio orwelliano della democrazia non significa l'affermazione di una razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono, si tratta in altre parole di uno di quei costrutti ideologici che sono stati imposti all'Europa per “rieducarla” in conseguenza della sconfitta nella seconda guerra mondiale, e anche alle popolazioni caucasiche d'oltre Atlantico, da sempre plagiate dietro le quinte da qualcuno che di origine europea non è, se si risale agli antenati remoti, affinché non si rendessero conto che il loro mondo si stava trasformando in un'invivibile società multietnica, come del resto è previsto che presto tocchi anche a noi.

Questa “teoria” si fonda su due assunti dati per sottintesi ma mai esaminati troppo da vicino, cosa che ne metterebbe subito in evidenza la falsità: il primo è la confusione fra la questione degli ominidi africani (la famosa Lucy e tutti gli altri) e l'origine della nostra specie. I primi si collocano a milioni di anni fa, l'altra a decine di migliaia di anni fa, vi è una differenza di due ordini di grandezza sulla scala temporale, ma evidentemente si conta sul fatto che la gente comune, l'uomo della strada non ha troppa familiarità coi numeri.

L'altro aspetto della questione che non si vuole guardare troppo da vicino, è che “africano” in senso geografico non significa necessariamente “nero”; al contrario, è assai probabile che quella vasta area dell'Africa settentrionale oggi occupata dal deserto del Sahara ma che fino a 12-11.000 anni fa era fertile, il “Sahara verde” fosse abitata da popolazioni di ceppo caucasico che possono aver avuto un ruolo nel popolamento dell'Europa. Popolazioni i cui discendenti più diretti in epoca storica sarebbero stati i Berberi (fra i quali sono frequenti pelle chiara e capelli biondi) e i Guanci delle Canarie, mentre il nero subsahariano è un tipo umano formatosi in un'epoca relativamente tarda. In fin dei conti, facevo notare, Giuseppe Ungaretti, John R. R. Tolkien, Christian Barnard il medico pioniere dei trapianti di cuore, sono tutti nati su suolo africano senza avere alcunché di nero.

C'è un lato della questione che raggiunge decisamente il grottesco: circa centomila anni fa il nostro pianeta era abitato in tutta l'area del Vecchio Mondo da diverse popolazioni variamente etichettate come pre-sapiens o sapiens arcaiche. E' verosimile che si sarebbero graziosamente estinte di loro iniziativa per lasciare spazio libero al “puro” sapiens di origine africana? Certo, l'idea che sia stato proprio il presunto sapiens africano a sterminarle, è più credibile, ma non fa fare una figura molto bella a una “teoria” che fra le altre cose dovrebbe oggi invogliarci all' “accoglienza” verso gli invasori che oggi lasciano il continente nero. A questo punto, qualcuno ha avuto un'idea geniale. Pare che tra 50 e 70.000 anni fa il vulcano Toba nell'isola di Sumatra in Indonesia sarebbe esploso in una gigantesca eruzione. Secondo i sostenitori dell'Out of Africa, questa esplosione avrebbe proiettato nell'atmosfera un'enorme quantità di ceneri che avrebbero provocato una sorta di inverno nucleare che avrebbe portato all'estinzione tutte le popolazioni umane allora esistenti, tranne gli africani da cui si pretende che tutti noi discenderemmo. Già a formularla, ci si rende conto di quanto un'idea simile sia poco plausibile. Una catastrofe di entità planetaria avrebbe quasi annientato una specie, la nostra, senza lasciare segni visibili sulle altre?

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Poco dopo essere stata formulata questa bella teoria del vulcano Toba, sempre nell'arcipelago indonesiano, nell'isola di Flores, sono stati scoperti i resti di certi piccoli uomini che sono stati chiamati hobbit come i personaggi di Tolkien. Ci si è resi conto con sorpresa che non si sarebbe trattato di sapiens ma di una forma nana (nanismo insulare) di homo erectus, si tratta dunque di creature molto antiche, che sarebbero vissute su quest'isola fino a 30.000 anni fa, dunque fino a 20-40.000 anni dopo la presunta esplosione del Toba pur trovandosi a quello che su scala planetaria è appena un passo da questa presunta catastrofe apocalittica. Cari piccoli hobbit, che hanno dato uno scrollone fondamentale all'Out of Africa!

Poi, come se non bastasse, sono arrivate le ricerche dei genetisti russi Klysov e Rhozanskij: l'analisi del DNA dimostra chiaramente che Europei ed Asiatici NON derivano da antenati africani. Pare di assistere oggi a una guerra fredda ideologica di segno invertito: mentre i ricercatori russi sono liberi di far parlare semplicemente i fatti, quelli statunitensi sono costretti a salvare a tutti i costi il dogma dell'Out of Africa come corollario del più ampio dogma “antirazzista” considerato indispensabile alla sopravvivenza della loro innaturale e artificiosa società multietnica (“antirazzismo”, ossia negazione dell'esistenza delle razze, nel linguaggio orwelliano della democrazia che all'atto pratico, soprattutto trapiantato sulla sponda europea che si sta cercando del pari di trasformare in una società multietnica, significa il razzismo più disgustoso che si possa concepire, quello contro i nativi che hanno la colpa di vivere nella stessa terra in cui sono nati i loro padri).

Non basta ancora, perché fossili umani chiaramente sapiens di età anteriore ai 70.000 anni e quindi alla presunta origine africana della nostra specie dopo l'altrettanto presunta catastrofe del Toba, sono saltati fuori un po' dappertutto, e il fossile cinese noto come l'uomo di Liuijang non è che l'ultimo di una lunga serie.

Il fatto che la “teoria” dell'Out of Africa sia chiaramente smentita dai fatti, non impedisce che essa sia continuamente ammannita al grosso pubblico e citata su tutti i libri di testo come “la verità” ufficiale sulle nostre origini, ma noi sappiamo esattamente quello che è: propaganda di regime.

L'Out of Africa è, per così dire, la menzogna quadro di un articolato sistema di mistificazioni, un sistema che si completa considerando almeno altre due deliberate falsità sulle nostre origini: quella intesa a trasformare gli Indoeuropei da guerrieri e conquistatori delle steppe eurasiatiche in pacifici agricoltori di provenienza mediorientale, e quella che vede l'origine della civiltà nella Mezzaluna Fertile sempre in Medio Oriente, deprimendo o negando il ruolo dell'Europa nella civiltà umana.

Forse, per cogliere l'esatta prospettiva delle cose, è necessario fare un considerevole passo indietro. Quando nel XIX secolo i filologi e linguisti germanici scoprirono che la gran parte delle lingue d'Europa oltre ai linguaggi indiani e iranici avevano un'origine comune, e tendevano a convergere verso un linguaggio ancestrale comune man mano che si risaliva indietro nel tempo, non fecero solo una scoperta di immenso valore nel campo linguistico, ma anche in questo caso facendo parlare semplicemente i fatti come la buona scienza deve fare, ruppero con una tradizione che aveva pesantemente condizionato l'immagine che la cultura europea aveva di se stessa, infatti, contemporaneamente resero evidente che ebrei, arabi, e del resto mesopotamici e altri popoli antichi appartenevano a un altro ceppo linguistico e conseguentemente a un altro contesto antropologico e culturale.

Quella che in questo modo entrava in crisi, era la concezione della storia che si era avuta fin allora, certamente ampliata, articolata e approfondita, ma la cui concezione di base si richiamava pur sempre alla bibbia, mentre adesso era possibile riconoscere nella bibbia, nel cristianesimo e in tutto ciò che discende da esso, un elemento antropologicamente e culturalmente estraneo che si era insinuato nella cultura europea.

E' ovvio che “qualcuno” abbia cercato in tutti i modi di ricucire un simile “strappo”.

Negli anni passati due linguisti russi, Aaron Dolgopolskij e Vladimir Ilic-Svyityc elaborarono la cosiddetta teoria del nostratico, supportata poi sul piano archeologico dall'archeologo inglese Colin Renfrew. In poche parole, il nostratico costituirebbe una superfamiglia linguistica in cui rientrerebbero sia le lingue semitiche che quelle camitiche (Egizi, Numidi, moderni Berberi e Copti dell'Egitto), sia quelle indoeuropee, che si sarebbero diffuse sulle due sponde del Mediterraneo a partire dal Medio Oriente in seguito alla diffusione dell'agricoltura. Una teoria che mi è sembrata ben poco credibile sin da quando ne ho sentito parlare. Per prima cosa, sembra un travestimento in termini scientifici della leggenda biblica dei tre figli di Noè, ma soprattutto la situazione che prospetta, che potremmo aspettarci in base ad essa, non è quella che riscontriamo nell'Europa antica.

Noi abbiamo esempi rappresentati dall'espansione di comunità agricole che si diffondono colonizzando man mano nuovi territori, è un'espansione molto più lenta della conquista che porta alla rapida formazione di vasti imperi da parte di élite di cavalieri e conquistatori, ma molto più definitiva e porta alla formazione di estese masse umane dotate di una relativa omogeneità; ne sono esempi la Cina e l'India pre-ariana. In genere questo tipo di “conquista” non lascia sostrati di sorta, perché gli agricoltori, demograficamente esuberanti, allontanano o assorbono le bande di cacciatori-raccoglitori nomadi.

Nell'Europa antica di sostrati pre-indoeuropei ne troviamo parecchi, e non gruppi isolati, ma interi popoli, vaste culture e civiltà: Etruschi, Minoici, Iberi, Sardi e Corsi, Pelasgi, Liguri il cui dominio era un tempo esteso a gran parte di quella che è oggi la Francia meridionale, e via dicendo.

C'è anche l'aspetto psicologico, il sospetto che questa teoria sia stata creata a bella posta per strappare dalle mani dei nostri antenati indoeuropei l’ascia da combattimento e sostituirla con la zappa del contadino, per disarmare psicologicamente noi, sospetto per la verità aggravato dalla circostanza che dopo la caduta dell'Unione Sovietica Aaron Dolgopolskij ha rinunciato alla cittadinanza russa e si è trasferito in Israele.

Ancora una volta, sono stati gli studi di genetica a dipanare il bandolo della matassa, e la teoria del nostratico ne è uscita bocciata. In contrasto con essa, hanno evidenziato che l'85% degli Europei appartiene al tipo conosciuto come eurasiatico settentrionale, presente sul nostro continente fin dal Paleolitico. Sul concetto poi che l'agricoltura sia effettivamente nata in Medio Oriente e non in Europa, ci sarebbe molto da discutere, e lo rimandiamo alla prossima volta.

Per non rendere questo testo chilometrico, per ora ci fermiamo qui. Per ora possiamo mettere come conclusione provvisoria che siamo figli del nord e non dell'Africa, eredi della cultura indoeuropea, europei, italici di ceppo indoeuropeo e non bastardume proveniente dalle più disparate parti del mondo. Abbiamo alle spalle un patrimonio di sangue, di tradizione e di cultura che si perde nella notte dei tempi, e intendiamo difenderlo.

NOTA: L'illustrazione che correda questo articolo è un'immagine composita che sintetizza almeno una parte del lavoro sin qui svolto: vi si riconoscono la locandina delle due conferenze di Michele Ruzzai del 27 gennaio e del 24 febbraio (quest'ultima in versione doppia), della mia conferenza dell'11 marzo, la copertina del libro Epicentro Mu di Antonio Scarfone, e l'aurora boreale dell'immagine di copertina del gruppo MANvantara.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantunesima parte – Fabio Calabrese

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Cari lettori: vi chiedo di avere pazienza. In questo cinquantunesimo articolo della nostra rubrica, ero intenzionato a concludere il riepilogo iniziato la volta precedente, sulle molte cose che nella cinquantina di articoli stilati in precedenza abbiamo avuto modo di vedere, tuttavia questo sia pure estremamente utile ripasso dei fondamentali lo dobbiamo rinviare, e lo riprenderemo la prossima volta perché in questo periodo di metà 2017 sono emerse una serie di novità sulla ricerca delle nostre origini di cui è impossibile non dare conto.

Una novità che sta accendendo vivaci discussioni sul web, è la scoperta di un ominide europeo, i cui resti sono stati ritrovati in Grecia e Bulgaria, che risalirebbe a 7,2 milioni di anni fa (quindi più antico degli ominidi africani finora noti) ed a cui sono stati dati il nome scientifico di Graecopithecus Freybergi e il nomignolo di “El Greco”.

La cosa davvero singolare, è che la notizia di questo importante ritrovamento che dovrebbe portare alla riscrittura della storia delle origini umane ci arriva attraverso pubblicazioni “di Area”, VoxNews del 22 maggio e “Il secolo d'Italia” del 23 maggio con un pezzo a firma di Anna Clemente, mentre le pubblicazioni “scientifiche” ufficiali nonché i canali di informazione generalisti hanno semplicemente ignorato il fatto.

Eppure non c'è alcun dubbio sul fatto che i resti fossili di questa creatura esistono. Sulle interpretazioni si può sempre discutere, ma cosa dobbiamo pensare di una “scienza” che censura i fatti per essa scomodi?

Il perché di questo atteggiamento censorio che è esattamente il contrario dell'onestà scientifica, davvero non è difficile da capire: “El Greco” costituisce un ulteriore scrollone alla già traballante “teoria” dellOut of Africa che i censori e inquisitorie vestali della democrazia devono difendere a ogni costo, perché costituisce un corollario fondamentale della loro pretesa dell'inesistenza delle razze umane.

Ridotta all'osso, la loro argomentazione si potrebbe sintetizzare così: L'uomo si è evoluto dagli ominidi, gli ominidi erano africani, dunque l'uomo è nato in Africa. Io non vorrei ora riaprire una discussione sul concetto di evoluzione, anche perché si tratta di un argomento che ho ampiamente trattato nei miei scritti precedenti. Diciamo in estrema sintesi che un conto è l'evoluzionismo (o meglio il darwinismo) come griglia interpretativa dei fatti biologici, un altro la sua interpretazione ideologica con l'abbinamento ai concetti di “sviluppo ascendente” e “progresso” e chi più ne ha più ne metta, ignorando aspetti fondamentali della teoria darwiniana quali la selezione, la lotta per l'esistenza, la sopravvivenza del più adatto, che ne fanno in realtà la smentita di tutte le filosofie democratiche, progressiste, buoniste.

Io vorrei ora concentrare l'attenzione sulla seconda premessa di questo sillogismo, l'africanità degli ominidi che questa scoperta viene decisamente a smentire, tuttavia va detto, e l'abbiamo già visto nelle parti precedenti della nostra disamina, che anche questa non rappresenta una novità assoluta. L'elenco degli ominidi non africani era già abbastanza lungo: si va dagli indiani Ramapithecus e Sivapithecus (i cui nomi rievocano due divinità del pantheon induista) all'italiano Oreopithecus Bambolensis, che presenta proprio quelle stesse caratteristiche che hanno fatto attribuire agli ominidi africani la qualifica di precursori dell'umanità, ossia la stazione eretta completamente bipede, e un arco dentario di tipo umano, tondeggiante e privo dei grossi canini tipici delle scimmie antropomorfe, per non parlare qui del misterioso homo di Savona, vecchio di due milioni di anni, su cui non è stata mai compiuta una seria indagine scientifica, ma è stato lasciato in un vergognoso dimenticatoio.

Alla luce di tutti questi atti, che homo sia originario proprio da un ceppo di ominidi africani, quando in passato l'areale di queste creature era verosimilmente molto più esteso, rimane quanto meno un'ipotesi tutta da provare.

E' tuttavia inutile illudersi: quello cui stiamo assistendo, una volta di più, non è un sereno dibattito basato sull'analisi dei fatti e il confronto delle teorie con essi, ma una disputa ideologica.

Ne è la riprova un articoletto apparso su “Ethnopedia” a firma di tale Kirk (mai che questa gente si indicasse coi propri veri nomi e cognomi, sembra che quella di lanciare il sasso e nascondere il braccio sia una pratica molto diffusa in ambito democratico), che è un vero capolavoro di malanimo e faziosità.

Vediamo dunque cosa ci ammannisce (il capitano?) Kirk:

“Non si parla di Homo Sapiens, la nostra specie, né di un antenato da cui discendiamo, ma di un ominide che si è invece estinto come tanti altri”.

Questo si chiama rivoltare la frittata, fare il processo alle intenzioni o fabbricarsi un avversario di comodo. Chi ha mai sostenuto che questa creatura antica di 7,2 milioni di anni fosse un homo? Il discorso è un altro: l'origine africana della nostra specie è stata sostenuta in base alla presunzione che gli ominidi fossero esclusivamente africani, ora è quest'ultima asserzione che si rivela palesemente falsa.

Si osservi poi l'affermazione sminuente: “un ominide come tanti altri”, come se gli ominidi non africani non fossero oggetto di uno sminuimento o addirittura di un occultamento sistematico.

Ma questo naturalmente è solo l’antipasto, le vere chicche dell’articolo devono ancora venire;  vedete questo passaggio:

“Se l'articolo che linkate proviene da siti notoriamente politici come VoxNews, Il Primato Nazionale ed Ereticamente, vuol dire che esso è intriso di ideologia e propaganda politica”.

Una cosa di questo genere provoca chiaramente disappunto, ma anche una certa soddisfazione. Significa anche che ESISTIAMO e diamo fastidio, che il nostro non è solo un predicare nel nostro cortile (il che sarebbe comunque importante, vista la carenza di formazione ideologica dei nostri ragazzi che si trovano a vivere in un clima ostile a tutto quanto rappresentiamo), ma che anche democratici e antifascisti sono costretti malgrado loro a tenerci in considerazione.

Sui temi della paleoantropologia, delle origini dell’uomo, poi ci siamo occupati su “Ereticamente” soprattutto io e Michele Ruzzai, con una presenza quantitativamente meno massiccia della mia ma sicuramente di qualità, ed è quasi un peccato che “Kirk” non citi anche “MANvantara”, il bel gruppo facebook gestito da Michele.

Anche qui, sul tema della paleoantropologia, l’insinuazione di “Kirk” ricorda molto la storia del bue che dà del cornuto all’asino.

Bisogna ricordare a questo riguardo le parole dello storico australiano Greg Jefferys:

“Tutto il mito dell'Out of Africa ha le sue radici nella campagna accademica ufficiale negli anni '90 intesa a rimuovere il concetto di razza. Quando mi sono laureato, tutti passavano un sacco di tempo sui fatti dell'Out of Africa ma sono stati totalmente smentiti dalla genetica. (Le pubblicazioni) a larga diffusione la mantengono ancora”.

Dunque a peccare di ideologia non sono coloro che contestano il dogma dell'Out of Africa che sono piuttosto quelli che cercano di ristabilire la verità, ma coloro che lo sostengono. Questa sedicente “teoria” non è nata da fatti scientifici, ma dall'intento propagandistico di distruggere il concetto di razza, cioè come strumento politico. La genetica la smentisce (qui fanno testo le ricerche dei genetisti russi A. Klysov e S. Rozhanskij), tuttavia essa continua a essere propagata dai mezzi di massa a larga diffusione – cioè quelli controllati dal potere – perché è uno strumento ideologico prezioso per chi mira allo sradicamento dei diversi gruppi umani, e a cui della verità scientifica non importa nulla.

Più sotto arriviamo a quello che è il vero nocciolo della questione:

“Sotto la pelle siamo tutti uguali, c'è più diversità genetica tra due italiani che tra un italiano e un nigeriano”.

L’inesistenza delle razze e delle etnie, è questo il discorso sottinteso a tutto l’ambaradan out-of-africano. Qui ritorna una vecchia menzogna della democrazia che abbiamo sentito ripetere fino a farcela uscire dalle orecchie ma che nonostante ciò, rimane un’assoluta falsità, la presunzione dell’inesistenza degli Italiani dal punto di vista genetico, la leggenda che geneticamente noi saremmo non un popolo ma un’accozzaglia disparata al punto che fra uno e un altro di noi presi a caso, ci sarebbero meno affinità che con qualsiasi altro abitante di questo pianeta preso altrettanto a caso. Il sottinteso di questo “messaggio” è estremamente chiaro: dal momento che il popolo italiano come continuità di sangue non esiste, non ci dovremmo preoccupare del fatto che oggi l’immigrazione e la sostituzione etnica lo stanno cancellando. Peccato solo che questa sia una totale falsità, come recenti e seri studi genetici hanno ampiamente dimostrato, e sono tornato con ampiezza su questo argomento nella quarantottesima e nella quarantanovesima parte della nostra rubrica.

Volete che non si usi la parola “razza”? Va bene, non usiamola, ma resta il fatto che i neri subashariani hanno un quoziente intellettivo medio di 70, che coincide con il limite del ritardo mentale, che studi condotti negli Stati Uniti hanno dimostrato, a parità di condizioni economiche e sociali, una propensione al crimine cinque volte maggiore rispetto agli altri gruppi etnici, che qui da noi in Italia gli immigrati (in grandissima parte neri o magrebini) sono i responsabili del 50% di tutti i reati e del 90% di tutti gli stupri.

“Kirk” non manca di dispensarci qualche consiglio:

“Questi siti farebbero meglio ad occuparsi di politica, filosofia, mitologia, esoterismo e quello di cui si occupano quotidianamente”, e non di questioni scientifiche riguardanti le nostre origini per cui, a suo dire, non saremmo tagliati. Peccato solo che per quanto riguarda la politica, il fatto che ci venga gabellata una falsa immagine di noi stessi allo scopo di farci accettare l’invasione di cui siamo oggi vittime senza reagire, è un fatto politico.

Se posso io a mia volta ricambiare (il capitano?) Kirk elargendogli un consiglio, gli direi di riprendersi l’astronave Enterprise e ripartire alla scoperta di “Strani nuovi mondi e nuove civiltà”.

Su tutta la questione varrebbe la pena di riferire l’opinione espressa – per la verità in una conversazione privata, ma non credo di fargli alcun torto riportandola qui – di una persona perspicace e competente al riguardo, come è il nostro amico Michele Ruzzai, secondo cui, certamente la scoperta dei resti di ominidi non africani indebolisce “la teoria” dell’Out of Africa, ma la sua vera confutazione  è data dai fossili di homo vecchi di centomila anni e oltre (cioè ben prima di quanto previsto dall’OOA) che si ritrovano fuori dal continente africano. Ora di questi se ne trovano in buon numero in Asia, Oceania e anche in Europa, ma “la scienza”, o meglio l’ortodossia  “scientifica” dominante evita di parlarne se non per bisbigli e ammissioni a mezza voce che dovrebbero restare confinate entro i circoli degli specialisti.

Tuttavia, le novità che dobbiamo registrare in questo periodo non si limitano solo alla questione di “El Greco” (che però rimane una presenza “scomoda” della paleoantropologia e di cui si dovrebbe parlare ancora a lungo). Recentemente, un nostro corrispondente ha postato un articolo de “Le scienze” risalente al novembre 2015 dove si fa il punto sull’uomo di Denisova. Di quest’uomo vissuto nella Siberia meridionale tra 70.000 e 40.000 anni fa, ci sono rimasti dei denti e minute tracce scheletriche. L’analisi del DNA tuttavia ha consentito di stabilire che si trattava di un homo differente sia dall’uomo di Neanderthal, sia dal sapiens del tipo di Cro Magnon, e che ha lasciato un’impronta genetica importante nelle popolazioni asiatiche, melanesiane e australiane. Tuttavia rimane ancora oggi un uomo senza volto.

Ultimamente, “Il navigatore curioso” ha riportato i risultati di uno studio sul DNA dell’uomo di Neanderthal condotto  nel 2008 da Liran Carmel e Eran Meshorer, biologi presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, dal quale risulta che l’uomo di Neanderthal aveva in comune con noi ben il 99,84% del patrimonio genetico. Viene dunque del tutto a cadere la possibilità di considerarlo una specie separata dalla nostra, e possiamo dire che aveva rispetto all’uomo attuale al massimo una differenza di tipo razziale. D’altra parte avrete senz’altro presente che più volte in queste pagine vi ho sottolineato il fatto che questo antico uomo in passato l’abbiamo gravemente sottovalutato. Vi ho riportato anche un’immagine presa dal “Corriere della Sera” del dicembre 2014 che fa giustizia delle caratteristiche scimmiesche che per lungo tempo gli sono state attribuite. E’ certamente fra i nostri antenati (di noi europei, ma non dei neri sub sahariani).

Tutto questo rimanda al concetto della nostra specie come una specie politipica fra i cui antenati figurano oltre all’uomo di Cro Magnon, i neandertaliani e i denisoviani per non parlare del “quarto antenato” le cui tracce i ricercatori dell'Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona  avrebbero trovato nel DNA degli abitanti delle isole Andamane, e del quinto, un homo separatosi dalla linea principale dell’umanità circa 1.200.000 anni fa e con cui le popolazioni africane si sarebbero re-incrociate.

Rispetto a questo mosaico che è la nostra storia biologica, il meno che si possa dire dell’Out of Africa, è che si tratterebbe di una semplificazione fin troppo grossolana, ma una simile ammissione sarebbe già un peccare per eccesso di generosità, perché sappiamo invece che si tratta di un’interpretazione ideologica fortemente tendenziosa, concepita per ispirarci un finto senso di fratellanza verso chi per noi di sentimenti fraterni non ne nutre affatto e desidera solo soppiantarci. Tutto sta a vedere se glielo lasceremo fare.

NOTA: Nell’illustrazione che correda questo articolo, a sinistra il fossile di “El Greco”, a destra la ricostruzione dell’uomo di Neanderthal pubblicata sulla pagina scientifica del “Corriere della Sera” del dicembre 2014, che fa giustizia dei tratti scimmieschi solitamente attribuiti a questo nostro antenato.


Una Ahnenerbe casalinga, cinquantaduesima parte – Fabio Calabrese

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Proseguiamo con la sintesi del lavoro finora fatto che abbiamo visto nella cinquantesima parte. Le due questioni dell'origine dei popoli indoeuropei e della civiltà europea sono strettamente intrecciate e si collegano a una tematica estremamente importante, ossia la scoperta dell'agricoltura. Se questo passo fondamentale dell'incivilimento umano fosse avvenuto in Europa e non in Medio Oriente, allora si capisce bene che tutto il discorso sia di una presunta origine mediorientale degli Indoeuropei, sia della storia che ci sentiamo ripetere da ogni libro di testo, e che sembra un dogma incrollabile dell'ortodossia “scientifica” sulle nostre origini che ci viene imposta, cioè la nascita della civiltà nella Mezzaluna Fertile tra Egitto e Mesopotamia, verrebbe ipso facto a cadere.

Bene, vi sono degli indizi molto convincenti che le cose stiano proprio in questo senso, e che la “vulgata” che viene ammannita al pubblico a cominciare dai ragazzi delle scuole, sia in realtà basata in parte sulla mistificazione, in parte sull'ignoranza deliberata dei fatti. Gli indizi che possiamo considerare sono essenzialmente due: la priorità europea nell'allevamento di animali, in particolare i bovini, e nella scoperta e nell'utilizzo dei metalli.

La priorità europea nell'allevamento dei bovini è chiaramente dimostrata dal fatto che la tolleranza al lattosio, che consente di assimilare il latte di un'altra specie e anche in età adulta, è fra le popolazioni umane, massimamente diffusa nell'Europa centro-settentrionale (e nelle Americhe e in Oceania fra le popolazioni di origine europea), per decrescere man mano che ci si sposta verso il sud e l'est, fino a essere praticamente nulla nell'Africa subsahariana e in Asia orientale. Quest'ultima è palesemente un adattamento darwiniano alla nuova risorsa alimentare che l'allevamento ha messo a disposizione degli esseri umani. Vi sono vari indizi del fatto che l'allevamento brado dei bovini sarebbe stato preceduto da quello delle renne, e ne avrebbe ricalcato il modello.

Per capire la relazione tra l'agricoltura e l'uso dei metalli, occorre tenere presente che le l'alternarsi delle varie tecnologie preistoriche non ci rivela un perfezionamento tecnico quanto piuttosto cambiamenti nello stile di vita. Il corredo di utensili in pietra scheggiata dell'epoca magdaleniana, era pienamente adeguato alle esigenze delle comunità di cacciatori-raccoglitori. Il passaggio al mesolitico, 10.000 anni fa, è caratterizzato dalla produzione dei cosiddetti microliti, dentelli di pietra che immanicati su di un ramo curvo servivano a produrre falci e denunciano l'inizio di un'attività agricola. L'ascia neolitica in pietra levigata non è un perfezionamento di quella paleolitica, ma uno strumento che serve per abbattere alberi, e ci rivela che le comunità umane avevano bisogno di maggiore spazio.

Infine l'utilizzo dei metalli. Produrre un crogiolo dove colare il metallo, poteva richiedere a un artigiano molto più lavoro della creazione di uno strumento litico, ma una volta realizzato, poteva servire per un numero indefinito di fusioni: la popolazione umana era in crescita, e con essa la domanda di strumenti da lavoro, un'esuberanza demografica che, considerate le limitazioni insite nello stile di vita dei cacciatori nomadi, può essere spiegata solo con una sempre maggiore diffusione dell'agricoltura. Quindi il legame tra agricoltura e metalli si può dare per assodato.

Ebbene, il più antico attrezzo metallico conosciuto è l'ascia di rame dell'uomo del Similaun, più antica di cinque secoli di analoghi attrezzi mediorientali, e la più antica miniera che reca segni di sfruttamento umano, si trova a Rudna Glava nella ex Jugoslavia.

In generale, tutta l'archeologia antica sembra affetta di quello che io chiamerei strabismo mediorientale: la scoperta in Medio Oriente di quattro cocci di vaso e due paraventi di canniccio (e non credo esista al mondo un'area che gli archeologi hanno frugato più intensamente di questa, rivoltando, si può dire, ogni pietra) viene regolarmente salutata come la scoperta di “una nuova civiltà”, mentre si ignorano bellamente, si fa finta che non esistano, i grandi complessi megalitici europei.

In Before Civilization, un testo del 1973, l'insigne archeologo Colin Renfrew sottolineava che le nuove scoperte e datazioni consentite dall'impiego di tecniche quali il radiocarbonio e la dendrocronologia, imporrebbero di rivedere completamente l'idea che abbiamo sin qui avuto delle origini della civiltà, del passaggio dalla preistoria alla storia, perché è ormai accertato che i complessi megalitici dell'Europa occidentale sono di un millennio più antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat mesopotamiche, che gli antichi europei, molto prima di quel che si pensasse, avevano imparato a coltivare la terra, costruire templi, fondere il bronzo.

Dal 1973 a oggi di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po', eppure della rivoluzione pronosticata da Renfrew non si è vista traccia: certe conoscenze possono essere bisbigliate fra gli specialisti, ma non devono arrivare al grosso pubblico e ai ragazzi delle scuole cui si continua ad ammannire la favola della Mezzaluna Fertile, sono oggetto di un coverage nemmeno si trattasse di segreti nucleari.

Potremmo dire che l'originalità e la creatività della civiltà europea sono deliberatamente sottovalutate in ogni campo. Dodici anni prima della pubblicazione del testo di Renfrew, nel 1961, l'archeologo Nicolae Vlassa aveva scoperto nel sito di Turda in Romania le tavolette cosiddette di Tartaria contenenti i più antichi esempi di scrittura conosciuti al mondo, più antichi di almeno mille anni dei più antichi pittogrammi sumerici conosciuti, e oggi gli archeologi ammettono (solo a livello di specialisti, s'intende) l'esistenza di un'antica e precoce “Civiltà del Danubio”, di cui né sui testi scolastici né sulle pubblicazioni o i programmi televisivi destinati al grosso pubblico, troverete traccia.

C'è una radicale differenza fra le scritture ideografiche o sillabiche (o al caso una mescolanza delle due cose, come quella geroglifica egizia), che richiedono per esprimere un concetto centinaia di segni, e quelle alfabetiche dove ne basta una ventina, e che rappresentano rispetto alle prime un progresso fondamentale, permettendo un alfabetismo generalmente diffuso invece che prerogativa di una casta di scribi specializzati, e anche a questo riguardo c'è da dire che l'alfabeto è da ritenere un'invenzione piuttosto europea che non mediorientale. Comunemente, l'invenzione dell'alfabeto è attribuita ai Fenici, ma questi ultimi non fecero altro che semplificare la scrittura demotica egizia grazie al fatto che le lingue semitiche non danno importanza alle vocali, ma la vera invenzione dell'alfabeto, con la divisione della sillaba in vocale e consonante e l'introduzione dello spazio fra le parole, in sostanza il metodo semplice e pratico che utilizziamo ancora oggi, fu una creazione dei Greci.

Un discorso analogo si potrebbe fare per tantissime innovazioni che hanno letteralmente portato la civiltà umana a un livello superiore. Ormai due generazioni abbondanti di presunti intellettuali presunti anticonformisti si sono sforzati di ridurre a un'origine dall'Oriente (estremo, medio o vicino) ogni invenzione europea, si sono letteralmente compiaciuti di ridurre al minimo o di negare un qualsiasi apporto del Vecchio Continente all'incivilimento umano, con una sorprendente similarità con quegli altri presunti intellettuali tanto anticonformisti da essere uguali l'uno all'altro, che si dilettano di fare sfoggio di antipatriottismo (a prescindere dal sospetto che spesso si tratti delle stesse persone, animate da una sorta di masochismo intellettuale).

Di origine cinese sarebbero ad esempio invenzioni quali la bussola, la stampa, la polvere da sparo. La bussola, le “bussole” cinesi erano praticamente inutilizzabili: un ago di magnetite su un pezzetto di sughero che galleggia in una bacinella. L'idea di incernierare l'ago magnetico su un perno venne ai marinai italiani di Amalfi. La stampa: i Cinesi inventarono e usarono semplicemente timbri inchiostrati, l'invenzione dei caratteri mobili avvenne in Europa con Gutenberg. La polvere da sparo: oltre i petardi e i giochi pirotecnici, il Celeste impero non andò. Le armi da fuoco e l'esplosivo da miniera furono invenzioni europee.

Altre invenzioni innegabilmente legate all'Europa, sebbene anche di esse con zelo degno di miglior causa si siano – invano – cercati antecedenti fuori dal nostro continente, sono la tecnica costruttiva ad archi rampanti e costolature che permise la costruzione di quei prodigiosi edifici che sono le cattedrali gotiche, e il timone posteriore delle imbarcazioni che rese più affidabile la navigazione. Se quest'ultima vi sembra un'invenzione di poco conto, provate a unire il timone posteriore con la nave a sponde rialzate, il koggen inventato in età medioevale dalle popolazioni frisoni, la bussola, le armi da fuoco, e cosa ottenete? Il controllo degli oceani e del Globo terracqueo quale l'Europa ebbe per cinque secoli, fino alle due guerre mondiali.

Sin qui non abbiamo parlato delle eccellenze europee in campo intellettuale e spirituale, anche perché questa tematica implica inevitabilmente il confronto con una religione, questa si mediorientale, che si è infiltrata nella cultura europea provocando una lacerazione profonda con le tradizioni e lo spirito ancestrale del nostro continente, un discorso che ho svolto in più di un'occasione con ampiezza altrove, ma che ora ci porterebbe troppo lontano, ma diciamo almeno questo: quando si vedono gli Europei odierni lasciarsi incantare dall'ultimo guru da supermercato, è palese che costoro ignorano di avere alle spalle una tradizione di pensiero vecchia di tre millenni che comprende nomi come Socrate, Platone, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel.

Veniamo all'ultimo punto: le nostre origini in quanto italiani. Qui da dire non ci sarebbe moltissimo, tranne contrastare l'ennesima menzogna di regime che vorrebbe darci a intendere la non esistenza di una nazione italiana in senso etnico e genetico, la pretesa che noi saremmo un'accozzaglia eterogenea originaria dalle più diverse parti del pianeta, tenuti uniti da una morfologia geografica ben definita della nostra Penisola e da un comune retaggio culturale formatosi nei secoli. Il sottinteso di questa menzogna di regime, è che se noi non abbiamo nessuna omogeneità biologica e genetica, l'immigrazione che oggi si sta riversando su di noi come un'alluvione dal Terzo Mondo, e che una classe politica di traditori incentiva apertamente, in ultima analisi non cambierebbe un gran che.

Queste sono fole, menzogne di regime, menzogne del regime più falso e ipocrita che possa esistere, quello che passa sotto il nome di democrazia. Nella storia umana non è mai esistita una cultura vitale senza il supporto rappresentato da una coerenza etnica e biologica.

Va aggiunta l'altra fola consistente nell'esasperato localismo che spinge molti nostri connazionali a farneticare di inverosimili secessioni, a volersi inventare un'identità etnica diversa da quella italiana, perché – diciamolo apertamente – settant'anni di democrazia antifascista ci hanno portati al punto di avere vergogna di noi stessi, ma non è dell'essere italiani che dobbiamo provare schifo e vergogna, bensì della democrazia antifascista.

Questa tendenza, sebbene oggi si presenti in Italia forse più amplificata che altrove, è oggi in varia misura presente in tutto il continente europeo, e questo per un motivo preciso: quello della disgregazione delle entità nazionali attraverso l'incentivazione dei localismi, dei separatismi, dei secessionismi, è precisamente uno dei punti previsti dal piano Kalergi.

Anche in questo caso, gli studi di genetica hanno chiarito la realtà delle cose: gli Italiani, ma forse sarebbe meglio dire “gli Italici”, termine che sottolinea meglio l'aspetto etnico e genetico in contrapposizione a quello di cittadinanza-appartenenza a un'entità statale, cosa che in ultima analisi vale meno di nulla, esistono, fanno parte con una loro identità ben definita dei popoli della famiglia europea-indoeuropea.

Si tratta, gli studi di genetica l'hanno chiarito, di una realtà non monolitica, variegata da una componente celtica al nord e da una di origine greca al sud, ma non tali da non permettere di parlare del nostro popolo come di un'entità etnicamente coerente, d'altra parte nessun popolo al mondo può vantare una totale uniformità genetica. In particolare si è visto che una componente non-europea, mediorientale a cui vorrebbero oggi rifarsi ad esempio i sostenitori dell'artificiosa leggenda di una “Sicilia araba” non esiste se non a livelli del tutto trascurabili. In questa artificiosa leggenda anch'essa inventata per favorire l'accettazione della sostituzione etnica, vediamo bene come il localismo si saldi ai progetti mondialisti che mirano alla sparizione dei popoli europei, il piano Kalergi si tocca con mano.

Un discorso che ho cercato di sviluppare nell'arco di anni sulle pagine di “Ereticamente”, ma io credo che si capisca bene che qui si tratta di contrapporsi, di svelare la falsità di una “cultura”, di una “scienza” che è per intero un sistema di menzogne il cui scopo finale è l'accettazione rassegnata della nostra distruzione come Italici, come Europei, come Caucasici. A ripercorrere il cammino fatto, sembra strano, ma il primo articolo di questa serie nacque come una sorta di auto-presentazione nella quale raccontavo di come la mia storia umana, le mie vicende personali mi abbiano portato a interessarmi, e sotto l'ottica di una precisa scelta politica controcorrente, della storia dei nostri antenati, articolo che faceva seguito in realtà ad altri in cui avevo affrontato le questioni delle origini, tematiche che sono di una fondamentale importanza per una battaglia politico-culturale, perché se non sappiamo da dove veniamo non sappiamo chi e dove siamo, e se non sappiamo chi e dove siamo, non sappiamo dove andare.

Noi adesso ci siamo dedicati a ripercorrere la strada fatta insieme, ma non ci si ferma a riprendere fiato se non per ripartire di slancio. Il cammino che abbiamo davanti è ancora lungo, e non giungerà al suo termine, probabilmente se non con la cessazione della vita. L'impresa è titanica, si tratta di contrapporsi a un'intera “cultura” il cui scopo è la nostra rassegnazione al destino di morte che il potere mondialista ha deciso per noi e per i popoli europei, ma vi sono sfide che non si possono altro che accettare.

 

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantatreesima parte – Fabio Calabrese

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Io credo di avervi altre volte espresso il concetto che è fonte di sorpresa prima di tutto per me il fatto che questa serie di articoli sia diventata sulle pagine di “Ereticamente” una sorta di rubrica fissa a cadenza bisettimanale (più o meno) e se ci pensiamo, la cosa non può non destare un certo stupore, considerando il fatto che noi qui non stiamo parlando di cronaca politica (anche se abbiamo visto che nel discorso sulle nostre origini, discorso che in ultima analisi si riflette sul modo in cui interpretiamo la nostra posizione nell'esistenza, la politica c'entra eccome!) né di cronaca nera né tanto meno di gossip o simili, ma di questioni scientifiche dove si suppone che le scoperte e anche i relativi dibattiti abbiano un altro ritmo.

Sarà che su questo punto si viene a toccare un nervo scoperto. E' forse il caso di ricordare che nel 2014 “Le scienze” ha pubblicato allegato alla rivista il libro di Nicholas Wade Una scomoda eredità, la storia umana tra razze e genetica, ora al riguardo io devo essere sincero: si tratta di un libro di cui posseggo la versione in PDF ed è un testo di oltre mille pagine, piuttosto faticoso da leggere a schermo (e tralasciando il fatto che non trattandosi di un romanzo, bisogna prendere appunti a ogni capitolo), e per questo motivo ne ho rimandato più volte la lettura a cui conto di dedicarmi appena mi sarà possibile (ho una scaletta di lavori piuttosto fitta, fra cui gli articoli per “Ereticamente” occupano una parte non piccola), ma mi riprometto di farne una recensione come si deve.

C'è tuttavia una domanda a cui è possibile rispondere già adesso: perché la nostra eredità genetica, quel tipo di eredità, faceva notare Konrad Lorenz, che portiamo dentro di noi e che nessun testamento, nessun notaio, nessun tribunale ci può negare, sarebbe un'eredità scomoda? La risposta è scontata: perché le differenze biologiche e genetiche facilmente riscontrabili fra gli esseri umani mettono in crisi il dogma democratico dell'uguaglianza, e la cosa diventa tanto più grave (dal punto di vista di democratici, cristiani e marxisti assortiti, ovviamente), quanto più gli scienziati vanno accertando che non solo le nostre caratteristiche fisiche, ma anche quelle cognitive, comportamentali, sociali ed etiche, dipendono in misura rilevante dall'eredità genetica.

E' dunque chiaro che su questo terreno si gioca una partita ricca di significati. Nella cinquantunesima parte della nostra serie di articoli (perché la cinquantaduesima è stata invece dedicata a quel riepilogo delle nostre tematiche iniziato con il n. 50) abbiamo visto lo scritto pubblicato su “Ethnopedia” da tale “Kirk” (non c'è pericolo che questa gente si presenti mai col proprio vero nome e la propria faccia) a cui la scoperta dei resti di un antico ominide balcanico che è stato soprannominato “El greco” e che mette seriamente in dubbio l'origine africana dell'umanità, deve aver provocato un vero e proprio travaso di bile, e non ha trovato nulla di meglio che prendersela coi siti “di Area”, “Il Primato Nazionale”, “VoxNews” e (guarda un po') “Ereticamente”.

Fra poco ci verranno a dire che i resti di una creatura vissuta 7,2 milioni di anni fa sono “fascisti” e che tra le ossa rinvenute sono state trovate le tracce fossili di una tessera del PNF o del NSDAP!

Alla replica che gli ho già dato, varrebbe la pena di aggiungere una noterella: secondo costui, la nostra visione delle cose dipenderebbe da “biases”, cioè distorsioni dettate da motivazioni ideologiche (un altro tratto caratteristico di queste persone è la tendenza a imbastardire il linguaggio che usano riempiendolo di anglicismi di cui si può francamente fare a meno, come se la lingua italiana non fosse idonea a esprimere certi concetti); bene, parlando almeno per “Ereticamente” e per me (su “Ereticamente” a occuparci di paleoantropologia, della questione delle origini della nostra specie siamo soprattutto Michele Ruzzai e io, ma l'ottimo Michele non me ne voglia, con una presenza qualitativamente importante ma quantitativamente molto minore della mia), se si vanno a leggere i testi da me (da noi) pubblicati, si vede che fra le fonti citate spiccano “Le scienze”, “La Repubblica” e simili, tutte fonti di estrema, estremissima destra, per non parlare nemmeno della ricerca che ha mostrato che le differenze del DNA dell'uomo di Neanderthal rispetto a quello dell'uomo moderno sono praticamente irrilevanti, ricerca compiuta da studiosi dell'Università Ebraica di Gerusalemme, cioè – va da sé – un gruppo di nazisti della più bell'acqua.

La verità molto semplice è che queste “democratiche” vestali del Pensiero Unico non sanno più a che santo votarsi pur di continuare a tenere in piedi le finzioni dell'origine africana e dell'inesistenza delle razze umane. Come dice il proverbio, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

Bene, come se tutto ciò non bastasse, sembra che le scoperte paleoantropologiche in grado di rimettere in discussione la leggenda dell'Out of Africa si stiano succedendo a un ritmo incalzante. Prima di esaminare in dettaglio l'ultima scoperta citata da un numero rilevante di fonti (“Le scienze”, “The Guardian”, “ANSA”, tutte come si vede rigorosamente “di Area”), è importante una precisazione: l'Out of Africa, che non è una teoria scientifica, ma un'interpretazione ideologica delle nostre origini, quindi precisamente un bias nel senso in cui “Kirk” usa questa parola, non si limita ad affermare che la nostra specie avrebbe avuto origine sul continente africano, ma ci sono due importanti corollari, che questa origine sarebbe avvenuta in tempi relativamente recenti e che trarremmo la nostra origine dai neri subsahariani. E' perfino ironico che un ritrovamento avvenuto proprio in Africa venga ora a smentire entrambi questi assunti.

Il motivo per cui l'Out of Africa è costretta a postulare un'origine recente della nostra specie (non oltre 70.000 anni fa), è questo: circa 100.000 anni fa il nostro pianeta era abitato da diverse popolazioni umane, variamente etichettate come pre-sapiens o sapiens arcaiche (l'uomo di neanderthal è il più noto, ma certamente non il solo), l'OOA pretende che esse siano scomparse senza lasciare traccia nell'umanità odierna, per fare spazio all'uomo moderno che si suppone di esclusiva ascendenza africana. Ora, si potrebbe anche ipotizzare che sia stato il presunto sapiens africano a portarle all'estinzione (magari con qualche bel massacro come gli yankee hanno fatto con i nativi americani e gli israeliani stanno facendo con i palestinesi), ma di sicuro ciò non fa fare una bella figura a questa concezione le cui motivazioni non sono per nulla scientifiche, ma hanno lo scopo di farci accettare l'immigrazione, il meticciato e la sostituzione etnica.

Per togliersi dagli impicci, i sostenitori dell’OOA hanno inventato la favola accessoria secondo la quale l’esplosione del vulcano Toba in Indonesia avvenuta tra 70 e 50 mila anni fa, avrebbe provocato una sorta di inverno nucleare che avrebbe portato all’estinzione tutte le popolazioni umane allora esistenti, eccetto un pugno di superstiti africani che sarebbero diventati i nostri antenati (appena un po’ meno inverosimili di quelli di Italo Calvino). Ora è chiaro che il ritrovamento di fossili umani anatomicamente moderni antecedenti a 70.000 anni fa, anche in Africa ma ben al disopra dell’area equatoriale che si suppone sarebbe stata “l’arca” che avrebbe preservato questi nostri presunti antenati, indebolisce l’OOA.

Quanto all’altra assunzione che questi nostri antenati sarebbero stati vicini antropologicamente al nero sub-sahariano; questo è un punto essenziale di tutto l’ambaradan out-of-africano, anche se viene raramente esplicitato e lo si lascia perlopiù sottinteso, e tuttavia è la vera ragion d’essere dell’OOA, ne fa un corollario di tutto l’apparato ideologico antirazzista (dove per “razzismo” si intende sempre non l’affermazione della superiorità di una razza sulle altre, ma la constatazione che le razze umane esistono), la presunzione in ultima analisi che noi caucasici non saremmo altro che dei neri “sbiancati”.

Bene, proprio questo secondo assunto si fonda sul nulla. Non solo non esiste alcuna prova della pretesa che il nero subsahariano sia ancestrale rispetto agli altri gruppi umani, ma non rappresenta nemmeno il popolamento più antico dell'Africa che con ogni probabilità è rappresentato da un tipo umano diverso, l'antenato comune delle popolazioni khoisanidi (Boscimani e Ottentotti) e pigmoidi. Il gruppo “nero” (congoide) sembrerebbe essere invece di formazione relativamente recente, e secondo alcuni autori la sua formazione sarebbe avvenuta al di fuori dell'Africa nel plateau arabico.

Occorre avere presente questo quadro per capire come mai una scoperta di fossili umani avvenuta su suolo africano possa non rafforzare, ma indebolire l'Out of Africa.

La notizia, come vi dicevo, è comparsa su “The Guardian”, è stata ripresa dall'ANSA e da “Le scienze” (tutte e tre fonti – come è ben noto – fasciste, fascistissime come le leggi del 1925): in Marocco, a Jebel Irhoud, una vecchia miniera 100 chilometri a ovest di Marrakech, sono emersi resti umani fossili (appartenuti pare ad almeno cinque persone) di aspetto molto antico, ma la vera sorpresa è venuta fuori quando questi resti sono stati sottoposti a test volti a stabilirne l'età da parte di Jean-Jacques Hublin dell'Istituto Max Planck per l'antropologia evoluzionista di Lipsia, test dai quali è risultato che questi fossili di uomini anatomicamente moderni, sapiens, risalirebbero a ben 300.000 anni fa, quindi sarebbero ben anteriori a quanto previsto dall'OOA.

La notizia è dei primi di giugno e, come era prevedibile, MANvantara l'ha riportata molto prima di me (il vantaggio di un gruppo facebook è precisamente quello di riuscire a “stare sul pezzo” in tempo quasi reale, mentre quello che sto facendo io è un lavoro di riflessione e rielaborazione, ed “Ereticamente” ha di certo una maggior diffusione, ma comporta una tempistica più lunga) e al riguardo, un collaboratore del gruppo, facendo riferimento alla fonte ANSA ha commentato:

“Anche se qui la Out of Africa Theory non è smentita direttamente, fa riflettere su una necessaria antedatazione del Sapiens e una sua localizzazione in area mediterranea (Marocco) prima di quanto finora ritenuto possibile rispetto all'idea di un'origine subsahariana”.

La distinzione che viene qui fatta tra area mediterranea (compresa la sponda africana) e Africa in senso globale, ma soprattutto subsahariano, non è accademica, infatti occorre ricordare una volta di più che “africano” in senso geografico non significa necessariamente “nero”. Che un'Africa settentrionale abitata da popolazioni affini al Cro Magnon possa aver avuto un ruolo importante nell'antico popolamento dell'Europa ai tempi in cui il Sahara non era ancora un deserto bensì una regione fertile con ogni probabilità intensamente popolata, è un'ipotesi tutt'altro che da scartare. Ernesto Roli, lo studioso già amico e collaboratore di Adriano Romualdi, ad esempio, si era espresso con me in questo senso in una comunicazione privata, ma questa è tutt'altra cosa rispetto all'affermare che il nero subsahariano abbia avuto una qualche parte in ciò.

Andando a esaminare le cose pubblicate da MANvantara in questo torno di tempo, si trova una recensione del nostro Michele Ruzzai del libro di Luigi Brian Il differenziamento e la sistematica umana in funzione del tempo (ed. Martello 1972). Il fatto che questo lavoro sia alquanto datato non deve far pensare che si tratti di un'opera superata: semplicemente è con ogni probabilità uno degli ultimi testi che si sono potuti scrivere, e ha potuto essere pubblicato da un editore generalista prima che intervenisse la censura democratica con la proibizione di parlare di razze.

Riguardo in particolare alle origini della razza nera, il nostro Michele riporta:

Brian ricorda che la razza congoide – definizione che abbraccia le attuali popolazioni subsahariane – viene considerata “ad evoluzione tardiva”, seguendo l'impostazione di Carleton Coon. In effetti possiamo ricordare che reperti dalla chiara morfologia negride sono piuttosto recenti (come peraltro anche quelli mongolidi), mentre i ritrovamenti di aspetto europide sono sicuramente più antichi, ad esempio Cro Magnon e Combe Capelle”.

In poche parole, e questo è il punto realmente centrale, la documentazione fossile ci consente di smentire decisamente che il nero subsahariano possa essere il tipo ancestrale della specie umana, mentre appare piuttosto il frutto tardivo dell'adattamento a un ambiente particolare, quindi anche nell'ipotesi di collocare in Africa il punto di origine della nostra specie, quello che è il cuore dell'OOA, ispirato non da dati di fatto ma dall'esigenza ideologica “antirazzista”, cioè che “verremmo dai neri”, non sta assolutamente in piedi.

Sempre per completare la panoramica di questo periodo, MANvantara riporta il link a un articolo di “Science Daily” del 23 maggio che a sua volta cita come fonte l'università di Toronto dove si parla dei resti di un ominide risalenti a 7,2 milioni di anni fa ritrovati nei Balcani. Non si tratta di altri, l'avrete capito subito, che del nostro “El Greco”.

Bene, potremmo dire, finalmente questa importante scoperta è menzionata non soltanto in siti “di Area” ma in una pubblicazione scientifica ufficiale, il che andrebbe benissimo se non fosse per un fatto, che comunque si tratta di una pubblicazione straniera. In Italia fuori dall' “Area” tutto tace, eccezion fatto come abbiamo visto, per l'articolo su “Ethnopedia” tendente a denigrare questa scoperta e coloro che ne evidenziano l'importanza. Si direbbe che “El Greco” sia dannatamente scomodo per qualcuno.

Cosa dobbiamo pensare di una democrazia e di una “scienza democratica” che teoricamente proclamano la libertà di opinione e il libero confronto delle idee e che nella pratica hanno paura dei fatti (non delle opinioni, perché l'esistenza del fossile di “El Greco” è un fatto!) e li censurano?

Si ha forse paura di mettere in crisi un'immagine del nostro passato e di noi stessi ortodossa e quindi tranquillizzante. Peccato solo che questa tranquillizzante ortodossia con la pretesa dell'inesistenza delle razze e della riduzione delle etnie a mero fatto culturale, ci porti dritti al suicidio come popolo.

NOTA: Nell’illustrazione (tratta da “Le scienze”) si può vedere la ricostruzione di un cranio di Jebel Irhoud ottenuta al computer sulla base di microscansioni di tomografia computerizzata.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantaquattresima parte – Fabio Calabrese

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Come avete avuto modo di vedere, questa rubrica copre un ventaglio di tematiche piuttosto vasto: lungo la linea temporale si va dalle remote origini della nostra specie a quelle dei popoli indoeuropei, della civiltà europea e, tema che io tengo particolarmente a evidenziare anche perché spesso stranamente “snobbato” anche in ambienti “nostri”, quello delle nostre origini e della nostra identità come italici.

Tuttavia, non c'è soltanto questo, infatti si possono certamente distinguere le nuove informazioni e le scoperte scientifiche dalle comunicazioni, diciamo così, “di servizio” riguardanti il modo come il dibattito sulle nostre origini si sviluppa all'interno dell' “Area” attraverso articoli sui siti, interventi sui social, conferenze o altro.

Ora, se dopo due importanti scoperte di quelle che ci costringono a rivedere la storia della nostra specie di cui vi ho parlato nelle parti precedenti, cioè i resti di un ominide europeo ritrovati nei Balcani e risalenti a 7,2 milioni di anni fa, che è stato chiamato “El Greco”, e quelli di un uomo anatomicamente moderno datati a 300.000 anni fa ritrovati in Marocco, continuassero a susseguirsi scoperte altrettanto eclatanti, ci sarebbe davvero di che meravigliarsi.

Senza pretendere troppo dalla fortuna, stavolta daremo un'occhiata ad alcune “comunicazioni di servizio” dell'Area, e vedremo di precisare meglio alcune questioni rimaste in sospeso.

Se voi andate a rileggere in particolare la quarantottesima e la quarantanovesima parte, potete notare che in entrambe c'è un riferimento alle origini italiche che nella prima delle due è un discorso che non si capisce bene come esca fuori, e nella seconda è collegato in maniera abbastanza pretestuosa a una conferenza che avevo in animo di tenere (le intenzioni, come non dovrebbero essere processate, così non dovrebbero neppure costituire titolo di merito finché non si traducono in realtà).

L'arcano è presto svelato: in entrambe avevo fatto riferimento a dei post di un gruppo di idee certamente “nostre”, ma – io ignoravo la cosa – il cui comportamento nei confronti di “Ereticamente” è stato tutt'altro che encomiabile, e sono stato pregato di ritoccare gli articoli per non fare loro un'immeritata pubblicità. Questo ci porta a un discorso importante: il reale significato da dare a questo termine, “cameratismo” del quale spesso abusiamo. Diciamo che una condivisione di idee a livello intellettuale non è sufficiente, occorre quanto meno una condivisione di etica e di stile.

L'aspetto della cosa che io personalmente ho trovato più irritante, è il fatto che per una serie di circostanze, sembra proprio che un discorso come si deve sulle origini italiche, non si riesca a impostare. Io credo che si tratti di una questione fondamentale dal nostro punto di vista: quella sentina di idee distorte e di menzogne che conosciamo con il nome di democrazia, sta al riguardo diffondendo, e oggi con più intensità che in passato, una favola che occorre assolutamente smentire: ossia che gli Italiani sarebbero una sorta di patchwork genetico, privo di alcuna coerenza tranne la collocazione geografica e un vago collante culturale. L'idea che ci si vuole far accettare surrettiziamente, è che la massiccia immissione di sangue estraneo da cui oggi siamo invasi con la cosiddetta immigrazione, tutto sommato non cambierebbe un gran che.

Peggio ancora, l'idea del tutto falsa che l'eccellenza italiana in campo artistico (pensiamo che il nostro Paese, dati UNESCO ospita il 50% della produzione artistica dell'intero pianeta), culturale (pensiamo al rinascimento), scientifico (ricordiamoci che siamo stati la patria di Leonardo Da Vinci e di Galileo Galilei) sia dovuta a una qualche ibridazione avvenuta in passato, o a una serie di ibridazioni avvenute nel corso dei secoli in conseguenza delle invasioni straniere che la nostra Penisola ha subito, invasioni che, lo abbiamo visto più volte, hanno lasciato nella realtà dei fatti una traccia piuttosto nulla che scarsa.

E' in base a questo assunto distorto che qualcuno, non si sa quanto per malafede e quanto per pura stupidità, è arrivato a definire gli invasori e parassiti che ci sommergono dalle fogne del pianeta “risorse”. La verità è esattamente opposta, è quando un popolo può mantenere nel tempo la propria identità e la propria fisionomia, che può sviluppare la propria cultura, mentre il meticciato non porta, non ha mai portato altro che alla decadenza.

Io adesso però non vorrei tediarvi con la storia di quella conferenza annunciata che finora non si è riusciti a tenere, andando troppo sul personale. Quel che dispiace purtroppo constatare, è che anche in ambienti “nostri” pare a volte di scorgere una sorta di inconfessata vergogna di essere italiani, e i motivi non sono difficili da capire: si va dallo schifo di settant'anni di “repubblica democratica” impostaci dai vincitori del secondo conflitto mondiale che si è rivelata il regime più corrotto esistente in Europa, a quel che accadde durante quel conflitto, con i nostri che si trovarono in una condizione penosa di inferiorità rispetto a Tedeschi e “alleati”, ai vergognosi “ribaltoni” del 25 luglio e dell'8 settembre 1943.

Ricordiamo allora che i nostri padri e nonni seppero compiere prodigi di valore sovente evidenziati proprio dal fatto di dover affrontare il nemico in condizioni di inferiorità tecnica, che nel 1943 furono la viltà e il tradimento di pochi a infangare il valore di molti, e infine non dimentichiamo mai che “la repubblica democratica” non è l'Italia, né un destino che gli Italiani abbiano scelto, ma un protettorato impostoci dai dominatori a stelle (fra le quali è meglio non contare il numero delle punte) e strisce.

Forse vi interesserà sapere che la scaletta di questi ultimi articoli è stata oggetto di estesi rimaneggiamenti. Dopo avervi presentato una sintesi del lavoro sin qui svolto (la cinquantesima e quella che poi è diventata la cinquantaduesima parte), avevo pensato di darvi una panoramica anche degli articoli in cui mi sono occupato a vario titolo della questione delle origini, dei popoli antichi e via dicendo, senza includerli in Una Ahnenerbe casalinga (tutta la serie Ex Oriente lux, per dirvene una), ma poi mi sono reso conto che questo avrebbe significato mettersi un po' troppo al centro dell'attenzione, mostrare di ritenere fondamentale nei miei scritti il fatto di essere scritti da me, piuttosto che ciò che contengono, dare la precedenza alla persona piuttosto che all'idea.

Tuttavia c'è qualcosa della quale ritengo utile rendervi edotti. Nelle parti che poi ho tagliato, raccontavo una circostanza che può essere spunto per utili riflessioni, che non mi pare di avervi menzionato in precedenza, anzi di cui non mi ricordavo proprio prima di mettermi alla stesura di questo lavoro, essendo la cosa avvenuta parecchi anni addietro,.

Come forse ricorderete, il primo di questa serie di articoli, sotto il cui titolo ho poi deciso di raccogliere tutto il discorso concernente l'eredità degli antenati, i popoli antichi, la civiltà europea e via dicendo, è stato un numero in certa misura autobiografico nel quale raccontavo come sia nato questo interesse per le civiltà antiche e in particolare l'esigenza di approfondire le origini della civiltà europea unitamente alla rivendicazione della sua originalità. Tutto partì da una rovente discussione con una collega nella sala insegnanti della scuola dove allora lavoravo; questa signora era una fanatica delle culture orientali e a suo dire “gli Europei non avevano mai inventato nulla”.

La circostanza della quale allora non vi parlai e di cui mi sono ricordato solo in seguito, è che con questa signora avevo già avuto un'altra discussione che aveva assunto i toni di uno scontro rovente, e anche questa in pubblico, davanti a una scolaresca che avevamo accompagnato in gita scolastica a Firenze. All'uscita dagli Uffizi, costei ebbe un'altra trovata che ebbe il potere di pungermi sul vivo. Avevamo appena ammirato la Venere del Botticelli, e graziosamente rese edotti me e i ragazzi che Botticelli sarebbe stato omosessuale (del che poco mi importa, né poi mi sono preoccupato di verificare), aggiungendo però la sua opinione da femminista un tantino esagitata, che la creatività artistica o di altro genere, sia un dono essenzialmente femminile, e che quando capita che un uomo la manifesti, debba essere omosessuale o comunque avere una personalità femminea. Essendo io anche uno scrittore di narrativa e non essendomi mai accorto in vita mia di avere tendenze omosessuali, la cosa mi provoco una reazione spazientita che, date le circostanze, penso fosse assolutamente giustificabile.

Ciò che più conta rilevare, però è questo: ma possibile che queste persone di sinistra ammiratrici di tutto ciò che si presenta come extraeuropeo, orientale e simili, più o meno “colorato”, e che nello stesso tempo si professano femministe più o meno arrabbiate, o magari gender, non si rendano conto che la loro ammirazione la riservano a culture, come quella islamica che trattano il cane di casa con maggiore considerazione della donna, e dove spesso per gli omosessuali c'è la forca? Possibile che non vedano una contraddizione grossa come una montagna?

Ve lo confesso, mi sono spremuto a lungo le meningi per capire come “i compagni” (e soprattutto “le compagne”) potessero non vedere una contraddizione così vistosa, poi di colpo ho avuto una specie di illuminazione che mi ha reso ogni cosa chiara: a livello oggettivo, reale, la contraddizione c'è ed è enorme, ma a livello soggettivo non esiste.

Dietro il terzomondismo della sinistra e l'ideologia gender c'è lo stesso atteggiamento, ossia la riduzione di un fatto biologico a mero costrutto culturale: in un caso l'etnia e l'appartenenza etnica, nell'altro il sesso e la sessualità. Certo, questo porta all'assurdo per cui vediamo un “compagno” gay o transgender farsi promotore di quell'accoglienza agli immigrati in maggior parte islamici che nei suoi confronti non provano altro desiderio che quello di farlo penzolare da una forca, ma “a sinistra” l'aderenza alla realtà dei fatti non è mai stata una virtù.

Di questi tempi, a tenere banco – era prevedibile – è soprattutto la questione dello ius soli, questa estrema nefandezza del governo di sinistra pidiota impostoci e non eletto dagli Italiani, intento a dare l'ultimo colpo d'ascia per sfasciare la nostra traballante identità nazionale. Al riguardo, è interessante un post pubblicato in data 19 giugno sul gruppo facebook “Idee sul destino del mondo” da uno di quegli amici che io considero “collaboratori indiretti” di “Ereticamente”, Ettore Malcangi. Facendo notare come l'integrazione sia un'utopia o una fola, presenta le immagini delle ricostruzioni di cinque ominidi o uomini preistorici nei cui lineamenti sono già riconoscibili quelle differenze razziali che caratterizzano l'umanità attuale.

Su ciascuno di questi personaggi, antenato o parente collaterale che sia, ci sarebbe da aprire una discussione. La ricostruzione dell'uomo di Denisova, ad esempio, che vi riporto. Di questo antico uomo che avrebbe lasciato la sua impronta genetica nelle popolazioni asiatiche e australiane, in realtà sappiamo pochissimo. Quello di cui disponiamo sono alcuni frammenti ossei e alcuni denti, molari di taglia decisamente grande a confronto di quelli delle popolazioni moderne, troppo poco per ricostruirne la fisionomia, quindi questa ricostruzione deve verosimilmente molto alla fantasia.

Di maggiore interesse è probabilmente la ricostruzione dell'uomo di Neanderthal, un'immagine diversa da quella che io vi ho proposto nella cinquantunesima parte della nostra Ahnenerbe, ma del pari si vede come le caratteristiche scimmiesche a lungo attribuite a questo nostro antenato (in ossequio, suppongo, a un'interpretazione rigida e dogmatica dei concetti evoluzionistici) siano del pari scomparse, e quanto sia vero quel che diceva uno scrittore di fantascienza (scusate, ma non mi ricordo esattamente chi) che con un abito moderno, una sbarbata e un buon taglio di capelli, un uomo di Neanderthal potrebbe girare per Manhattan senza destare attenzione.

Nel complesso, questa galleria di ritratti viene a supportare in modo sorprendente la teoria di Carleton S. Coon sull'origine delle razze. Questo ricercatore aveva notato che, salvo nell'ipotesi di incroci, le razze umane appaiono molto stabili nel tempo, al punto che si deve ipotizzare che la loro origine e la loro diversificazione siano anteriori alla comparsa di homo sapiens: esse si sarebbero formate già quando l'umanità si trovava allo stadio di Erectus, e il meccanismo del loro passaggio a homo sapiens sarebbe stato questo: facciamo l'ipotesi che una popolazione sapiens venga a contatto con una di Erectus e che fra l'una e l'altra avvengano degli incroci. Quali caratteri conserverà nel tempo la popolazione ibrida risultante, lo decide la selezione naturale, quelli che alla lunga si rivelano più vantaggiosi, cioè da un lato quelli sapiens che rappresentano un vantaggio generale (ad esempio un'aumentata capacità cranica che significa una maggiore intelligenza), dall'altro quei caratteri già propri della popolazione Erectus che rappresentano un vantaggio perché sono un adattamento a condizioni locali, come ad esempio il clima, cioè i caratteri razziali che hanno una singolare persistenza e antichità.

Oggi la teoria di Coon non gode di popolarità presso la scienza accademica ufficiale, ma NON perché sia stata in qualche modo smentita da nuove ricerche e nuovi fatti emersi, ma semplicemente perché la censura democratica “politicamente corretta” oggi proibisce di parlare di razze. AL CONTRARIO, le scoperte recenti nel campo della paleoantropologia e soprattutto lo studio del DNA hanno confermato la teoria di Coon, anche se per ovvi motivi si preferisce non dirlo: l'impronta genetica dell'uomo di Neanderthal riscontrata nel DNA degli Europei odierni, la scoperta dell'uomo di Denisova, il “quarto antenato” le cui tracce i ricercatori dell'IBE di Barcellona avrebbero rintracciato nel DNA degli abitanti delle isole Andamane, il quinto, l'Erectus separatosi dalla linea principale umana 1,2 milioni di anni fa e con cui si sarebbero reincrociati gli antenati dei neri subsahariani (quarto e quinto, naturalmente contando il Cro-Magnon che sarebbe stato il portatore primario delle caratteristiche sapiens), tutto ciò porta inevitabilmente alla conclusione che quella umana è una specie politipica e Coon aveva ragione.

Dalla metà di giugno in poi anche quest'anno non l'ho scampata, mi sono toccate le maturità, quelle che sono divenute ufficialmente Esami di Stato, ma la cosa più sgradevole è che mi è toccato un Istituto Magistrale oggi divenuto Liceo delle Scienze Sociali. E' bene chiarire un fatto fondamentale: Tutta la scuola italiana è imbevuta da cima a fondo dalle menzogne dell'ideologia “rossa” gabellate per scienza, ma negli ex istituti magistrali, cioè quelli che si occupano di plagiare i ragazzi destinati a diventare coloro che si occuperanno della (de)formazione primaria delle nuove generazioni, la pressione ideologica è particolarmente forte, e io onestamente, come insegnante, non trovo giusto far pagare agli allievi il fatto di aver subito cinque anni o più di lavaggio del cervello.

Ho preso in mano il testo di scienze sociali, e come prevedevo, vi ho trovato sciorinato tutto lo sciocchezzaio dell'antropologia culturale targato Levi Strauss.

C'è un paragrafo che mi ha colpito e vale la pena di riferire. Gli autori “discutono” se il concetto di etnia vada considerato qualcosa di fisso, immutabile, genetico (e quindi, salvo meticciato, variabile al più col flusso lento delle mutazioni e della selezione naturale), o invece qualcosa di fluido, mutevole, culturale. Gli autori propendono ovviamente per la seconda interpretazione, perché se si considerasse valida la prima, allora il concetto di etnia sarebbe sinonimo di quello (aborrito) di razza.

In altre parole, la forma logica di tale “ragionamento” si riduce a “Poiché la realtà non ci piace, ce ne inventiamo una secondo i nostri gusti, e guai a chi si accorge che il re è nudo”.

Cioè l'atteggiamento tipico della sinistra, in cui la cecità voluta si prolunga senza soluzione di continuità nella malafede.

In tutta sincerità, dato il tipo di “cultura” oggi dominante, credo che i miei articoli avrebbero ben scarse possibilità di apparire che so, su “Le scienze” o in qualche sede ufficiale “di prestigio”, ma questo in particolare ancor meno di altri, infatti, come avete visto, le tematiche paleoantropologiche sono rimaste tangenti a un discorso dedicato principalmente sia ai retroscena di questi articoli, sia alle implicazioni ideologiche e politiche di una materia tutt'altro che “neutra”.

Bene, ciò non costituisce minimamente un problema. L'intento di questi scritti, infatti non è di tipo accademico, ma è quello di conoscere per agire in difesa della nostra identità etnica e storica.

NOTA: le tre immagini che compongono l'illustrazione di questo articolo sono, da sinistra: la ricostruzione (molto ipotetica) dell'uomo di Denisova e quella dell'uomo di Neanderthal entrambe tratte dal post pubblicato su “Idee sul destino del mondo”, e la copertina dell'edizione italiana de L'origine delle razze di Carleton S. Coon.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantacinquesima parte – Fabio Calabrese

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A volte sembra che il destino sia, non so se beffardo o benevolo, ma certamente giochi con ironia. Già altre volte mi era accaduto di segnalare su questa serie di articoli, che ha ormai superato la quota di cinquanta ed è diventata – si può dire – una rubrica sulle pagine di “Ereticamente”, il fatto che in un campo scientifico come quello della ricerca delle nostre origini, non fosse possibile trovare una scadenza di novità sostanziali come avviene per la politica spicciola, il gossip, lo sport o altro, e a distanza di poco tempo dopo aver espresso una simile lamentela, mi è capitato di trovarmi riversate addosso una serie di novità, di informazioni inedite, di scoperte sulle nostre origini, da lasciare sorpresi, se non proprio storditi. A volte ho l'impressione che ci sia qualche divinità – benevola, ma che non mi risparmia una tiratina di orecchie ogni tanto – che mi incoraggia ad andare avanti.

Bene, la volta scorsa, se non mi sono proprio lamentato, avevo comunque affermato che dopo due scoperte rivoluzionarie sulle tematiche delle origini come la scoperta di un ominide europeo vecchio di 7,2 milioni di anni i cui resti sono stati ritrovati nella area balcanica (Grecia e Bulgaria) e che è stato soprannominato “El Greco”, e quella dei resti di Homo sapiens anatomicamente moderni vecchi di 300.000 anni ritrovati a Jebel Irhoud in Marocco, sarebbe stato difficile che si presentassero di nuovo a breve scadenza scoperte altrettanto notevoli in grado di ridisegnare la storia della nostra specie.

A quanto pare, anche stavolta la divinità, genio, numen o daimon che sia, che sembra avermi preso sotto la sua tutela, si è divertita a smentirmi.

Per capire meglio l'importanza dell'ultima scoperta che segue le due sopra accennate e di cui ci siamo già occupati, sarà bene dire due parole introduttive.

Contrariamente a quanto asserito dalla maggior parte dei testi scolastici e di divulgazione “scientifica” che sono solo PROPAGANDA DI REGIME a favore del meticciato, la specie a cui apparteniamo, homo sapiens, è una specie politipica caratterizzata da importanti differenze sia di aspetto fisico sia comportamentali che trovano un puntuale riscontro nella genetica. Oggi non si vuole, anzi non è consentito usare la parola “razze”, ma al di là delle parole e degli artifici che è necessario usare per cercare di aggirare la censura di regime che esiste su questo argomento, la sostanza delle cose non cambia.

Queste differenze che hanno le loro origini nella genetica (gli studi scientifici seri smentiscono la credenza nell'onnipotenza dell'ambiente cara alle sinistre) risalgono al nostro remoto passato, al fatto che la nostra specie è nata da una pluralità di antenati che, distaccatisi da homo erectus hanno intrapreso per proprio conto il cammino verso il livello sapiens, anche se con incroci e apporti genetici reciproci che non hanno però fatto scomparire la peculiarità dei diversi gruppi umani. Oltre all'eredità dell'uomo di Cro Magnon che rappresenta “il classico” sapiens, negli europei (caucasici) e negli asiatici è riscontrabile la traccia genetica dell'uomo di Neanderthal, negli asiatici e negli australoidi quella di un uomo i cui resti fossili finora disponibili (alquanto scarsi) sono conosciuti da poco, l'uomo di Denisova. L'eredità denisoviana parrebbe essere particolarmente forte nei melanesiani che si differenziano in maniera caratteristica da tutti gli altri gruppi umani oggi esistenti.

Come se non bastasse, uno studio compiuto da un team di ricercatori catalani dell'Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona sul genoma degli indigeni delle isole Andamane e di altre popolazioni asiatiche, ha evidenziato la presenza di geni che non risalirebbero né al sapiens di tipo Cro Magnon, né all'uomo di neanderthal, né a quello di Denisova, ma richiedono di ipotizzare un nuovo e per ora sconosciuto antenato dell'umanità attuale. In Italia e in lingua italiana, la notizia è stata riportata da un articolo apparso sul sito ecologista “Greenreport” (www.greenreport.it), Scoperto un nuovo misterioso antenato degli esseri umani moderni, di data 26 luglio 2016.

“La vulgata” ufficiale sulla storia più antica della nostra specie è completamente diversa, si pretende che gli esseri umani presenterebbero una pressoché totale uniformità genetica, che tutte le differenze fisiche e comportamentali che indubbiamente esistono fra loro, siano riconducibili a fattori ambientali e culturali, che i nostri antenati sarebbero emigrati in tutto il Vecchio Mondo (e poi nelle Americhe) provenendo dall'Africa (“teoria”, ma ci vuole un grosso sforzo di benevolenza per considerarla tale, dell'Out of Africa), e tutto lo sciocchezzaio tipico della sinistra; infatti se la base genetica è identica in tutti gli esseri umani, si può continuare a ragionare come se non esistesse e risuscitare o tenere in vita l'antico sogno della sinistra di riformare la società umana a partire dalla manipolazione dell'ambiente, come quando di genetica non si sapeva ancora nulla.

Poiché circa centomila anni fa in tutto il Vecchio Mondo esistevano varie popolazioni pre-sapiens o sapiens arcaiche, ecco che si è arrivati a immaginare un immenso colpo di spugna che le avrebbe spazzate via per lasciare spazio al solo e “puro” ceppo sapiens di origine africana. Questo colpo di spugna sarebbe consistito in una mega-eruzione del vulcano indonesiano Toba che avrebbe annientato tutti gli esseri umani allora esistenti, tranne un pugno di superstiti africani che sarebbero stati i nostri antenati (appena un po' meno plausibili di quelli di Italo Calvino). Solo a formularla, ci si rende conto di quanto poco plausibile sia un'ipotesi del genere: è possibile che una catastrofe planetaria porti una specie sull'orlo dell'estinzione senza lasciare alcun segno visibile sulle altre?

La ricerca genetica ha dimostrato che le cose non stanno affatto così, e che questo psicodramma sulle nostre origini non ha nessuna reale consistenza. Naturalmente, i sostenitori dell'Out of Africa non potevano ignorare completamente il responso della genetica, e ne hanno preso atto in maniera alquanto schizofrenica. Mi è capitato più di una volta, seguendo il dibattito sulle origini come si è sviluppato sui social di notare una quasi umoristica (se non fosse tragica) esaltazione della “pura linea” africana in confronto a noi europei e asiatici, ibridi di Neanderthal e di Denisova, un atteggiamento che si può definire soltanto in un modo: RAZZISMO, un paradossale razzismo pro-africano, oltre che grottesco, penoso alla luce del fatto che gli autori di queste sparate sono in genere bianchi caucasici, si tratta quindi di un auto-razzismo, un razzismo contro la propria gente, che non si capirebbe se non per il fatto che costoro escono regolarmente da quelle fucine di paranoie e distorsioni mentali che conosciamo come sinistra e (mente)cattolicesimo.

Bene, qui arriva la sorpresa, perché il nero subsahariano, ben lungi dal rappresentare il tipo sapiens “puro” è a sua volta il prodotto di un'ibridazione con un ominide arcaico.

Il 2 agosto 2012 “Le scienze” ha pubblicato un articolo a firma di Gary Stix, In Africa i primi umani moderni si incrociarono con altre specie che è  un'intervista con Sarah Tishkoff, una ricercatrice che l'articolista definisce “una star della genetica delle popolazioni”. La Tishkoff riferisce i risultati di uno studio genetico condotto su tre popolazioni di cacciatori-raccoglitori africani, e i risultati sono sorprendenti: per prima cosa, nel genoma di queste popolazioni non è stata trovata nessuna traccia di DNA risalente all'uomo di Neanderthal o a quello di Denisova, in compenso però:

Abbiamo visto molti dati che testimoniano incroci con un ominide che si è separato da un antenato comune circa 1,2 milioni di anni fa”.

Questo è il quadro che avevamo disponibile finora, e questa nuova scoperta in che cosa consiste, che cosa aggiunge?

Cominciamo con il dire che si tratta di una scoperta che riguarda non i fossili, di cui per ora non abbiamo evidenze, ma la genetica (sebbene questo registro del nostro passato che portiamo in noi stessi sia ancor più conclusivo e probante), o meglio ancora in questo caso lo studio delle proteine, che sono l'espressione diretta della base genetica (una proteina è composta di aminoacidi, e ogni aminoacido è codificato in maniera univoca da una tripletta di basi accoppiate del DNA).

In questo caso si tratta di una ricerca dell'Università di Buffalo che è stata pubblicata su “Molecular Biology and Evolution” in data 21 luglio, gli autori sono il biologo Omer Gokcumen dell'Università di Buffalo e Stefan Ruhl, docente di biologia orale alla Scuola di Medicina Dentale. La ricerca e il suo interessante esito sono stati ripresi e commentati su diversi siti on line, in particolare phys.org.news del 21 luglio 2017 con il titolo In saliva, clues to a 'ghost' species of ancient human  e da “Paleoanthropology” del 22 luglio in un articolo intitolato Gene Study Suggests Homo sapiens Migrated into Africa, Not Out of the Continent – Interbreeding with Local Hominins 150,000 Years Ago, a firma di Bruce R. Fenton. Una versione alquanto sintetica dello stesso articolo, limando i punti più “scottanti” è apparsa in lingua italiana su “Le scienze” del 24 luglio, e il nostro “MANvantara” l'ha subito postata.

Devo essere sincero: inizialmente non avevo colto l'importanza dell'articolo, sebbene gli avessi dato una rapida scorsa, sembrandomi semplicemente una conferma di quanto già emerso dalle ricerche di  Sarah Tishkoff, e di cui “Le scienze” ci aveva già resi edotti nell'agosto 2012 (e poi sono sincero, non è che io ami moltissimo leggere testi in inglese). Per fortuna un amico, uno di quegli amici che io considero “collaboratori indiretti” di “Ereticamente” e senza il cui aiuto tenere questa rubrica sarebbe considerevolmente più difficile, Maurizio N., ha richiamato la mia attenzione su questo pezzo e mi ha spinto a una lettura più approfondita.

Di che si tratta, allora?

I due biologi hanno studiato una proteina, una mucina, la MUC7, presente nella saliva umana, sono risaliti ai geni che la codificano, e hanno scoperto che essa si presenta nei neri subsahariani e i geni che la codificano si presentano in una forma diversa rispetto agli altri gruppi umani, viventi ed estinti, caucasici, asiatici, ma anche gli uomini di Neanderthal e di Denisova. Per questi ultimi, ovviamente, non si è potuta esaminare la saliva, ma solo le sequenze di DNA ricavate dalle ossa.

La conclusione a cui i due ricercatori sono giunti, è che questa proteina deve essere l'eredità di un antenato esclusivamente africano, un homo arcaico o un ominide con cui i sapiens antenati dei neri subsahariani si sarebbero re-incrociati. Fino a questo punto, come si vede la conclusione a cui i due ricercatori sono giunti, è semplicemente una conferma di quanto emerso dalle ricerche di Sarah Tishkoff, ma i nostri ricercatori si spingono alquanto più in là, innanzi tutto, l'assenza assoluta presso qualsiasi altra popolazione al mondo della variante “africana” di questa proteina mette seriamente in dubbio che le popolazioni sapiens sparse per il mondo possano essere derivate da antenati africani, perché in questo caso essa sarebbe dovuta essere presente anche altrove, sia pure in proporzioni minoritarie. E' di gran lunga più verosimile, sostengono gli autori, che homo sapiens sia nato in Eurasia e da qui abbia colonizzato l'Africa incontrandosi e incrociandosi con questo antico homo od ominide che, con un tocco di poesia, gli autori definiscono “specie fantasma” (“Ghost Species”) per l'assenza di riscontri fossili. (non è verosimilmente la sola “specie fantasma”, la stessa cosa si può dire del “nonno” degli isolani delle Andamane le cui tracce i ricercatori spagnoli dell'IBE di Barcellona avrebbero scoperto nel DNA dei suoi discendenti, ma di cui non abbiamo evidenze fossili).

Quasi tutti i ricercatori sono molto reticenti da questo punto di vista o cercano di salvare la capra delle loro scoperte assieme ai cavoli dell'ortodossia di regime, inventando funambolismi che cercano di persuaderci che “in realtà” le loro scoperte sono compatibili con l'Out of Africa, esattamente allo stesso modo in cui gli astronomi del cinque-seicento sostenevano che l'eliocentrismo era un semplice accorgimento per semplificare i calcoli, ma “in realtà” il sistema solare era geocentrico. Oggi lo scienziato che rivela verità che dispiacciono al potere, perlopiù non rischia di finire sul rogo, non rischia la pelle (non sempre, se pensiamo agli attentati subiti da Arthur Jensen), ma l'establishment politico e culturale ha ugualmente un gran potere di rovinare le vite e le carriere (anche gli scienziati devono mangiare).

Fa dunque un gran piacere che Omer Gokcumen e Stefan Ruhl abbiano il coraggio di affermarlo esplicitamente: homo sapiens è nato in Eurasia, e ha colonizzato l'Africa attorno a 150.000 anni fa (i 70.000 anni che ci concede “la teoria” del Toba sono veramente troppo pochi), con un movimento che è il contrario di quello che viene solitamente descritto.

L'OUT OF AFRICA E' FALSA! Possiamo dire di averlo dimostrato e che il nostro compito è finito? Non credo che le cose siano così semplici, perché anche se abbiamo maturato la certezza definitiva della sua falsità, non è che questo renda superflua la lotta contro l'establishment accademico e culturale interessato a diffonderla, perché in ultima analisi non è che una propaggine del potere politico che vuole imporre l'universale meticciato.

Ricordiamo le parole dello storico Greg Gefferys, parole che oggi suonano quasi profetiche:

“Tutto il mito dell'Out of Africa ha le sue radici nella campagna accademica ufficiale negli anni '90 intesa a rimuovere il concetto di razza. Quando mi sono laureato, tutti passavano un sacco di tempo sui fatti dell'Out of Africa ma sono stati totalmente smentiti dalla genetica. (Le pubblicazioni) a larga diffusione la mantengono ancora”.

I media continuano e continueranno a propagandare l'Out of Africa per quanto le ricerche di genetica o altra natura possano averla smentita, perché è una dottrina troppo utile per il potere che ci domina e vuole imporre ovunque l'universale meticciato, e per questa ragione continueremo a parlarne e a contrastarla.

“Ereticamente” continuerà, io continuerò, questa serie di articoli continuerà.

NOTA L'illustrazione, una suggestiva immagine della “specie fantasma” è stata ripresa dall'articolo originale apparso in lingua inglese e poi su “Le scienze”.

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantaseiesima parte – Fabio Calabrese

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Sarà bene iniziare il nostro discorso riassumendo brevemente alcuni concetti fondamentali: quella che noi chiamiamo, che siamo stati abituati a chiamare democrazia, è un sistema di regimi ipocriti che tendono a tenere assoggettati i popoli del cosiddetto “mondo occidentale” al dominio americano e a coloro che dietro le quinte controllano la potenza, il golem verrebbe da dire, a stelle e strisce, non solo, ma che soprattutto dopo la scomparsa del concorrente sovietico al dominio mondiale, si prefiggono lo scopo di portare all'estinzione i popoli europei o di origine europea di stirpe caucasica per sostituirli con meno intelligenti, più malleabili e più facili da dominare, masse “colorate”, è quello che si chiama piano Kalergi.

In questo contesto, quella che passa per “cultura” e per “scienza” nel mondo sedicente democratico, non è che una serie di mistificazioni propagandistiche che hanno precisamente lo scopo di ottundere la sensibilità, l'autocoscienza in quanto realtà etniche dei popoli di stirpe caucasica-indoeuropea in modo che non percepiscano l'enormità del delitto che si sta commettendo contro di loro, e non si ribellino.

In questo avvelenamento delle coscienze gioca un ruolo chiave la negazione dell'esistenza delle razze, la pretesa assolutamente infondata dal punto di vista di una reale scientificità che tutte le differenze che esistono fra gli esseri umani, siano riducibili a fattori ambientali e culturali.

Allo scopo di rendere credibile una simile assurdità, è stata inventata “la teoria” priva di una qualsiasi reale base scientifica, dell'Out of Africa secondo la quale tutti i tipi umani attualmente esistenti deriverebbero dal nero africano e se ne sarebbero differenziati in tempi relativamente recenti (decine di migliaia di anni or sono, che in rapporto ai ritmi della storia biologica e geologica non sono davvero un tempo lungo).

Quando noi parliamo di “scienza” dovremmo sempre distinguere il concetto “galileiano” di scienza fondato sull'osservazione, la formulazione e la correzione delle ipotesi in base all'esperienza e là dove è possibile, sull'esperimento per mettere alla prova le interpretazioni, cioè la scienza come dovrebbe essere, dalla “scienza” intesa come istituzioni accademiche e teorie dominanti, che tali principi non rispettano minimamente, e sono invece una forma di propaganda a favore del sistema, un sistema il cui scopo finale è il nostro annientamento come popoli.

Proprio perché nata da motivazioni ideologiche che all'osservazione e alla ricerca non devono in realtà nulla, sarebbe stato ben strano che, andando a esaminare i fatti della storia passata della nostra specie, l'Out of Africa trovasse un qualche minimo appiglio nella realtà.

Più volte, si può dire, abbiamo visto che “i fondamenti” di questa “teoria” riposano sul nulla, ma oggi possiamo dire qualcosa di più, abbiamo la prova che essa è positivamente falsa. Se “la scienza” fosse davvero quella spassionata ricerca della verità per cui essa intende presentarsi, essa dovrebbe essere rapidamente abbandonata, ma possiamo essere certi che questo non avverrà, è un ingrediente troppo utile ed essenziale del sistema delle mistificazioni “democratiche”.

La prova positiva della falsità dell'Out of Africa è stata portata nel luglio di quest'anno da due biologi dell'Università di Buffalo, Omer Gokcumen e Stefan Ruhl, costoro, studiando una proteina che si trova nella saliva, una mucina, la MUC7, hanno scoperto che essa si presenta nei neri subsahariani in una forma diversa rispetto a tutte le altre popolazioni umane note, viventi o estinte. Costoro l'avrebbero ereditata da un antenato separatosi dalla linea umana principale con cui i sapiens immigrati in Africa dall'Eurasia si sarebbero re-incrociati. Gokcumen e Ruhl fanno notare che se il movimento fosse avvenuto nel senso inverso, dall'Africa all'Eurasia come pretende l'Out of Africa, cioè l'ortodossia “scientifica” ufficiale, la versione africana di questa proteina dovrebbe trovarsi sia pure marginalmente anche in gruppi umani al di fuori del Continente Nero, invece questo non succede. Con quello che possiamo considerare un veniale tocco di colore, i due ricercatori hanno chiamato questo ominide africano di cui per ora non si hanno evidenze fossili, “specie fantasma”.

Se ricordate, la scorsa volta ci siamo dedicati a esaminare questa scoperta con una certa ampiezza.

Il discorso però non finisce qui, sembra l'inizio di una frana che man mano si allarga, perché sembra proprio che nuove prove, e con una velocità sorprendente, vengano ad aggiungersi a quelle portate dai due biologi di Buffalo. Almeno, è quello che consente di desumere quanto apparso recentemente su “MANvantara”, l'ottimo gruppo facebook gestito dal nostro amico Michele Ruzzai il cui lavoro mi sembra si integri come meglio non si potrebbe, con quello che io stesso sto cercando di svolgere su queste pagine.

In data 7 agosto un collaboratore del gruppo, Jason Pickls (si, siamo internazionali a quanto pare) ha postato un articolo già comparso su “Scientific American” dieci anni fa e finora passato del tutto inosservato e che, non vorrei sbagliarmi, ma mi pare che finora non sia mai comparso in lingua italiana, né su “Le scienze” (che è la versione italiana di “Scientific American”), né altrove.

In questo articolo a firma di Nikhil Swaminathan dell'8 agosto 2007: Is the Out of Africa Theory out? (ricordiamo che l'inglese “out” andrebbe in questo caso tradotto come “fuori causa”, “fuori combattimento”), l'autore riferisce di una ricerca condotta da Maria Matinòn-Torres, paleobiologa del Centro Nazionale di Ricerca sull'Evoluzione Umana di Burgos (Spagna), che ha studiato la conformazione di ben 5000 denti di esseri umani moderni e preistorici, concentrandosi in particolare sulla conformazione delle corone dentarie, che non è influenzata dall'ambiente, ma è praticamente il riflesso del genotipo di una persona. Questo ha permesso di ricostruire una sorta di albero genealogico delle popolazioni attuali, che ne porrebbe l'origine non in Africa ma in Eurasia.

Qui c'è un discorso da fare su come funziona la ricerca scientifica nella  nostra cosiddetta democrazia: essa non può inibire del tutto la libertà di indagine dei ricercatori per non scoprire gli altarini del suo essere un sistema ideologico autoritario e dogmatico, ma quello che conta, è che le idee dei ricercatori non giungano al grosso pubblico a cui si continueranno a sciorinare le mistificazioni che fanno comodo, ma rimangano confinate a una ristretta cerchia di specialisti, che in ogni caso non hanno di certo il potere di contrastare la grancassa mediatica.

Andando a consultare con attenzione il grande oracolo dei nostri tempi che è Wikipedia, su fanno alcune scoperte interessanti. Non solo in opposizione alla “teoria” dell'Out of Africa esiste quella dell'evoluzione multiregionale secondo la quale il passaggio da Homo erectus a sapiens sarebbe avvenuto in maniera separata nei diversi gruppi umani senza privilegiare alcuna area del Vecchio Mondo, ma esiste una sia pure ristretta pattuglia di paleoantropologi sostenitori dell'Out of Eurasia, pattuglia che grazie alle scoperte di Gokcumen e Ruhl, ma anche di Maria Matinòn-Torres, dovrebbe ora allargarsi.

L'Out of Africa è poi distinta in Out of Africa I e Out of Africa II. Nella prima variante si suppone che l'uscita di Homo dall'Africa sarebbe avvenuta centinaia di migliaia di anni fa a livello di homo erectus, mentre nella seconda si suppone che essa sia avvenuta da parte di un homo già sapiens qualche decina di migliaia di anni fa. Bisogna notare che l'Out of Africa I è una – permettetemi l'espressione – non-out of Africa, perché se supponiamo che l'uomo sia uscito dall'Africa a livello di erectus, viene a cadere lo scopo “antirazzista” della sedicente teoria, che non è quello di illuminarci sulle nostre origini, ma di persuaderci che “veniamo dai neri” e che le razze non esistono.

In ogni caso, si capisce bene che sul tema delle nostre origini gli specialisti sono ben lontani da quell'unanimismo che il sistema mediatico racconta al grosso pubblico ovviamente non addentro a questi problemi, e a cui si possono dare facilmente a bere i dogmi “antirazzisti”.

Credo di avervelo già fatto rilevare, ma forse è il caso di far notare una volta di più lo spostamento concettuale di neolingua orwelliana che è avvenuto o ci è stato imposto: il termine “razzismo” è ormai passato a indicare non più chi sostiene la superiorità di una razza su altre, ma chi semplicemente si accorge o non finge di non accorgersi che le razze esistono; quindi chi constata che, ad esempio un nero africano e un bianco europeo non sono esattamente uguali, è un sostenitore dei campi di sterminio. Questo è terrorismo psicologico. Bene, se non altro adesso possiamo dire che per questo “antirazzismo” che è terrorismo psicologico e culturale, d'ora in poi sarà sempre più difficile avere o fingere di avere un avallo scientifico.

Bene, lo abbiamo visto più volte: la tematica delle origini copre una serie di questioni molto ampia. Un campo più ristretto e più vicino a noi rispetto alle origini della specie umana, è quello delle origini dei popoli indoeuropei. La novità che andremo a esaminare in questo campo, spero che non me ne vorrete, stavolta è per così dire interna alla nostra “Ereticamente”. Gli amici della redazione mi hanno infatti cortesemente chiesto un'opinione circa un articolo recentemente apparso sulla nostra testata, La Rus' di Kiev è un'eredità indoeuropea? , di Aldo C. Marturano.

Per capire il contesto ricordiamo che i primi stati creati nell'area orientale, slava del nostro continente, furono i principati di Kiev e Novgorod, creati da élite vichinghe su una base di popolazione slava. Dal termine slavo “rus'”, con cui i vichinghi stessi erano indicati dagli slavi, e che significa “rematore” (e i vichinghi hanno sicuramente percorso coi loro drakkar i grandi fiumi russi come il Volga e il Don), viene il nome della Russia, e infatti di due stati vichinghi sono considerati antesignani di quello russo.

In senso lato non ci potrebbero essere dubbi sulla questione: tutte le popolazioni del nostro continente, ad eccezione di quelle finniche, degli Ungheresi, dei Baschi, dei Turchi della Turchia europea, sono indoeuropee, o perlomeno parlano lingue di ceppo indoeuropeo, ma Marturano intende qualcosa di più specifico.

L'archeologa di origine lituana Marija Gimbutas avrebbe individuato nelle steppe dell'Ucraina e della Russia meridionale l'Urheimat, il luogo d'origine degli Indoeuropei. Dal momento che è proprio in queste aree che è sorto lo stato “rus'” di Kiev, e in epoca molto più tardiva rispetto ad altre formazioni statali del nostro continente, che gli slavi avrebbero mantenuto molto più a lungo la forma di organizzazione tribale, l'ipotesi che viene qui ventilata, è che la cultura slava dell'epoca e per conseguenza lo stato di Kiev, siano da riconnettere in maniera molto più diretta della cultura e delle istituzioni del resto del nostro continente alle origini indoeuropee.

E' un'ipotesi di grande interesse, e sulla quale merita lavorare, ma bisogna riconoscere che al presente non esiste alcuna certezza su dove fosse realmente collocata l'Urheimat indoeuropea. Al livello di conoscenze attuali, Marija Gimbutas potrebbe aver avuto ragione, ma le cose potrebbero anche stare altrimenti.

A parte quella che potremmo definire l'ipotesi-quadro dell'articolo, forse l'aspetto da prendere maggiormente in considerazione, è il fatto che Marturano evidenzia bene le problematicità connesse a questo tipo di ricerca, e prima di tutto il grande problema di fondo: è mai possibile tracciare le caratteristiche fisico-antropologiche di popolazioni vissute in epoche remote a partire da semplici dati linguistici? Esiste un'identità fra lingua ed eredità genetica-biologica, di stirpe, di ghenos? Fondendo o confondendo le due cose, non rischiamo di dare corpo a qualcosa che esiste soltanto nella nostra fantasia?

Se la linguistica moderna”, scrive Marturano, “Ci avverte che la combinazione di una lingua con un popolo fisico e reale non è una costante, quando e in quali termini lingua e gruppo umano parlante restano due realtà distinte o perché soltanto a volte coincidono?

Nell'età moderna la corrispondenza fra lingua, cultura ed eredità fisico-antropologica, di stirpe, di ghenos diventa sempre più aleatoria. Pensiamo ad esempio a un afro-americano degli Stati Uniti: parla inglese, quindi considerando la cosa esclusivamente dal punto di vista linguistico, dovremmo considerarlo un germanico. Ma tutti quanti noi conosciamo la storia di questo gruppo umano, sappiamo che i suoi antenati furono portati in America dall'Africa in catene in una tratta degli schiavi su scala industriale. E' il tipo di fenomeni che abbiamo sempre meno motivo di supporre man mano che ci spostiamo indietro nel tempo. Quanto più arretriamo lungo la scala temporale, tanto più la corrispondenza lingua-etnia diventa credibile.

Luigi Luca Cavalli-Sforza ha fatto notare che l'albero genealogico dell'umanità stabilito in base alle affinità linguistiche e quello costruito partendo dall'analisi del DNA coincidono in maniera da lui definita “sorprendente”.

Di questo fatto sono possibili diverse interpretazioni. John R. R. Tolkien, ad esempio, che era uno che di linguistica ne masticava parecchia, sosteneva un'influenza diretta della base genetica sul linguaggio, ad esempio a suo parere la radice “car-” per indicare il colore rosso, sarebbe tipica delle popolazioni di ceppo nordico. E' una cosa che mi ha sempre fatto sorridere. In italiano abbiamo “carne” (la carne è rossa o almeno rosata per la presenza del sangue) e “carminio” che è il nome di un tipo di rosso; noi Italiani dovremmo dunque essere più nordici delle popolazioni di ceppo germanico! In realtà, l'autore del Signore degli anelli era un uomo con una mentalità poetica, ma quanto di più lontano possiamo immaginare dal rigore scientifico.

A mio parere, la spiegazione corretta è precisamente quella opposta, cioè l'influenza dei fattori culturali sulla genetica delle popolazioni, nel senso che le differenze di lingua o anche, ad esempio, tabù culturali-religiosi possono costituire un ostacolo all'interscambio genetico che porta a un differenziamento tra due popolazioni vicine, come potrebbe essere un ostacolo naturale fra due popolazioni animali.

In ogni caso, vanno incoraggiati tutti gli sforzi volti a mettere in luce e comprendere l'eredità degli antenati, questo lascito, questo tesoro che rischiamo di perdere in un mondo sempre più meticcio e globalizzato.

NOTA:

L'illustrazione di questo articolo è un'immagine composita che ne sintetizza i diversi punti: la specie fantasma di cui abbiamo parlato la volta precedente e di cui qui completiamo il discorso, la raffigurazione di un bogatyr, eroe della tradizione slavo-russa, e lo scrittore John R. R. Tolkien che, come filologo, ha postulato un'influenza diretta della genetica sul linguaggio.

 

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantasettesima parte – Fabio Calabrese

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Da alcuni anni sto tenendo una serie di conferenze nell'ambito del Triskell, il festival celtico triestino e, come avete visto, ve ne ho riproposto i testi qui sulla nostra “Ereticamente”. Due anni fa, nel 2015, l'argomento era stato Il mito del Graal e il mistero di re Artù, l'anno scorso invece I misteri di Stonehenge. Quella di quest'anno il cui testo mi appresto a collocare anch'esso sulle nostre pagine, riguarda Le altre Stonehenge, cioè il fenomeno complesso quanto sottovalutato e negletto dall'archeologia ufficiale, del megalitismo nelle Isole Britanniche, che è molto più ampio del pur notevole complesso che sorge nella piana di Salisbury, e sarà quest’ultima tematica, divisa in due parti, l’oggetto dei nostri prossimi incontri settimanali.

Ora, è ben chiaro che queste conferenze, rivolgendosi a un pubblico generalista da cui non c'è da aspettarsi che condivida a priori la nostra visione del mondo, non abbordano direttamente le tematiche politiche, tuttavia è chiaro l'interesse che hanno per noi simili questioni nell'ambito di una Weltanschauung identitaria che deve proporsi l'obiettivo di valorizzare le nostre radici profonde e remote, in contrapposizione a una “cultura” mondialista che ci vorrebbe tutti quanti degli sradicati, a cominciare dall'aspetto psicologico, partendo da un'ignoranza del nostro passato appositamente voluta, costruita e diffusa, e lo si capisce bene vedendo quale squallore sono ad esempio oggi i programmi scolastici riguardo all'insegnamento della storia.

In realtà, la prima di queste conferenze annuali l'avevo già tenuta nel 2014 che aveva per oggetto Il mondo celtico alle origini della civiltà europea, ma allora non pensai di collocarne il testo su “Ereticamente”. Lo farò adesso sotto forma di una sintesi quanto più breve possibile, prima di rendervi edotti della mia ultima fatica.

Tutto questo, ci tengo a sottolinearlo, non perché io pensi che le cose che dico abbiano un particolare valore, o che altri non possano affrontare le stesse tematiche meglio di me, ma perché in ogni caso si tratta di contributi utili a rafforzare la consapevolezza della nostra identità storica nei confronti di una “cultura” mondialista che mira alla sua cancellazione.

Come ho detto più volte, il concetto di “origini” è ampio e si situa a diversi livelli, e se stavolta non andremo alla ricerca degli antenati più remoti ma ci atterremo a un orizzonte temporale che è appena al di là di quello della storia documentata, tuttavia la collocazione in Una Ahnenerbe casalinga ritengo sia ugualmente appropriata.

Un punto che sarà ovvio per la maggior parte di noi, ma che è bene rimarcare per evitare ogni possibile equivoco, è che il discorso sul mondo celtico non deve essere preso a pretesto per secessionismi più o meno “padani”. I Celti sono una radice storica e una componente fondamentale dell'ecumene europea, che nell'età antica sono stati portatori di una cultura che ancora oggi la storiografia ufficiale ingiustamente minimizza proprio per la sua non riconducibilità a influssi mediorientali. È opportuno evidenziare anche che la contrapposizione tra mondo latino-mediterraneo ed Europa centro-settentrionale celtica e germanica percepita sempre come irrimediabilmente “barbarica” è qualcosa che non ci appartiene, è un'invenzione del pensiero cattolico-controriformista, e – in quanto cattolica – a noi estranea.

Tutto ciò però non significa che si debba avallare l'idea di una Padania celtica sottomessa a un'Italia latina. I dati della genetica (assolutamente non trascurabili in un'ottica che concepisce la nazionalità come sangue e suolo) ci mostrano un'Italia variegata da una componente celtica nel nord e una greca nel meridione, ma non in misura tale che non si possa parlare di essa come di una realtà unitaria. Quanto all'apporto che essa avrebbe ricevuto nei secoli da altri coloni o invasori, dai Longobardi ai Saraceni, Bizantini, Spagnoli, eccetera, esso appare del tutto marginale.

Chi fosse interessato a leggere integralmente il testo della mia conferenza del 2014, in ogni caso lo può trovare tra i file del gruppo facebook “Pagina celtica” da me curato, sotto il titolo Mondo celtico.

Beh, lo ammetto, in premessa ho barato un poco, nel senso che è tutt'altro che certo che Stonehenge e gli altri complessi megalitici che punteggiano l'Europa neolitica siano attribuibili effettivamente ai Celti o a qualche popolazione pre-celtica o pre-indoeuropea a cui i Celti sarebbero andati a sovrapporsi, ma il punto veramente importante è che il nostro continente ha dimostrato fin dalle origini un livello di civiltà in misura del tutto indipendente da influssi mediorientali ipotizzabili, che l'archeologia ufficiale si ostina a ignorare. Queste costruzioni che si trovano sparse non solo nelle Isole Britanniche ma praticamente in tutta Europa, rivelano non solo una notevole perizia ingegneristica, essendo edificate con monoliti del peso di svariate tonnellate che pure noi con i mezzi tecnici moderni avremmo seri problemi a porre in opera, ma anche raffinate conoscenze astronomiche che hanno consentito di allinearle orientandole nella direzione di solstizi, equinozi ed eclissi, in modo da poter fungere da enormi astrolabi per la previsione degli stessi, e tutto questo un buon millennio prima del sorgere delle piramidi nella Valle del Nilo e delle ziggurat mesopotamiche.

L'origine della leggenda della Mezzaluna Fertile come origine della civiltà umana a dispetto delle prove evidenti in senso contrario, leggenda che permea di sé e distorce tutta la nostra archeologia e storiografia e rappresenta tuttora la “vulgata” illustrata nei testi scolastici, è molto chiara: la concezione storica “occidentale” si è costruita attorno alla narrazione biblica, e non si può riuscire a schiodarsi da essa finché non si ha il coraggio di considerare il “libro sacro” della cultura ebraico-cristiana per quello che effettivamente è, un testo il cui valore storico è praticamente nullo.

Riguardo alla questione dell'identità dei costruttori di megaliti delle Isole Britanniche, riportavo poi il parere dell'insigne archeologo Colin Renfrew che, sia pure in controtendenza con l'orientamento della maggior parte dei suoi colleghi, in un articolo pubblicato su “Le Scienze” nel 1991, ha sostenuto che essi non appartenevano a una qualche popolazione pre-indoeuropea poi assorbita dai Celti, ma erano proprio indoeuropei diretti antenati di quelli che conosciamo come Celti in età storica.

Un punto che dovrebbe essere chiaro, è che non si può parlare di civiltà fino all'innescarsi delle rivoluzione agricola. Solo con la nascita dell'agricoltura le comunità umane hanno potuto abbandonare lo stile di vita nomadico di cacciatori-raccoglitori, perché solo allora gli uomini hanno potuto raccogliere più cibo di quello indispensabile a sostentare se stessi e le loro famiglie, e quindi dare luogo a classi di lavoratori non direttamente impegnate nella produzione di quanto immediatamente necessario alla sussistenza. Bene, il punto successivo che ho esaminato, sono proprio le prove (indirette ma molto convincenti) del fatto che la rivoluzione agricola sia avvenuta non in Medio Oriente ma in Europa. Esse sono essenzialmente la priorità dell'Europa rispetto al Medio Oriente nell'allevamento dei bovini e nella lavorazione dei metalli.

La prima è dimostrata fuori di dubbio dalla tolleranza al lattosio in età adulta, che è chiaramente un adattamento darwiniano alla nuova fonte alimentare che l'allevamento bovino ha reso disponibile: essa è massima nell'Europa centro-settentrionale e decresce mani mano che ci si sposta verso il sud e verso l'est, fino a sparire in Africa e nell'Asia orientale; ciò suggerisce che l'allevamento bovino sia iniziato in qualche punto dell'Europa tra la Scandinavia e l'Arco alpino.

La sostituzione con il metallo degli utensili litici della preistoria, la cui produzione era pienamente adeguata alle esigenze dei cacciatori-raccoglitori nomadi, suggerisce un incremento demografico di popolazioni in espansione numerica che, considerati i limiti demografici cui sono soggette le popolazioni di cacciatori nomadi, non può essere spiegato altro che con l'introduzione dell'agricoltura. Bene, anche qui le prove sono molto chiare: il più antico attrezzo metallico conosciuto è l'ascia di rame di Oetzi, l'uomo del Similaun (di cinque secoli più antica del più antico analogo attrezzo mediorientale di cui si abbia notizia), e la più antica miniera conosciuta si trova a Rudna Glava nella ex Jugoslavia.

Ciò detto, ho esaminato un altro esempio che dimostra in maniera lampante come l'originalità e la creatività dei nostri antenati europei siano costantemente sottostimate. L'invenzione dell'alfabeto è comunemente attribuita ai Fenici, ma i Fenici non fecero altro che semplificare la scrittura demotica egizia omettendo le vocali e riducendo quindi il numero enorme di segni richiesto da una scrittura sillabica. La vera invenzione dell'alfabeto con la divisione della sillaba in consonante e vocale e l'introduzione dello spazio fra le parole, la notazione semplice e pratica che usiamo ancora oggi, fu creata dai Greci, non è un'invenzione mediorientale (fenicia), ma europea (greca).

Andiamo oltre, perché l'invenzione dell'alfabeto è stata preceduta da scritture ideografiche e sillabiche. La più antica scrittura conosciuta non è né quella geroglifica né quella cuneiforme, ma è stata scoperta nel 1962 nel sito di Turda in Romania appartenente alla cultura Vinca dall'archeologo Nicolae Vlassa su alcune tavolette note come tavolette di Tartaria, una scrittura più antica di almeno un millennio dei più antichi pittogrammi sumerici conosciuti, ritenuti fin allora i più antichi esempi di scrittura.

Dal 1962 a oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po', e il fatto che certe acquisizioni non siano mai arrivate al grosso pubblico cui si continua invece ad ammannire la favola dell'origine mediorientale della civiltà, dimostra l'esistenza di una vera e propria volontà censoria. Non si sa mai che gli Europei ritrovino l'orgoglio delle loro origini.

Mi sono poi dedicato a un'analisi dei complessi megalitici più importanti dell'area celtica e centro-europea, ed è un peccato che il fatto di dovermi rivolgere a un pubblico “celtico” mi abbia qui imposto di non menzionare altri complessi megalitici europei come le mura ciclopiche di Narni, i monumenti nuragici della Sardegna come il complesso di Barumini, e soprattutto gli splendidi templi ciclopici dell'isola di Malta, e vorrei qui sottolineare il fatto che l'Europa mediterranea e la nostra Penisola non erano all'epoca affatto più arretrate del mondo settentrionale.

Delle scoperte avvenute in tempi recenti a Stonehenge (e delle quali perlopiù i media hanno graziosamente evitato di informare il grosso pubblico), ho riparlato con maggiore ampiezza nella conferenza del 2016, il cui testo, I misteri di Stonehenge, trovate sulle pagine di “Ereticamente” sotto forma di due articoli, e ora non vi vorrei accennare se non in estrema sintesi. Soprattutto le sepolture nell'area del complesso megalitico si sono dimostrate in grado di gettare una luce nuova sull'intera concezione che abbiamo dell'Europa preistorica. Uno strumento di grande importanza si è dimostrato l'analisi dello smalto dentario dei resti umani inumati, poiché gli isotopi di ossigeno e lo stronzio in esso presenti consentono di individuare la zona di origine di quelle persone. In particolare quella dell'arciere di Amesbury, un uomo sessantenne afflitto da un grave ascesso che aveva intaccato l'osso della mandibola e da un'accentuata zoppia proveniente dall'Arco alpino, e del ragazzo con la collana di ambra, un quindicenne proveniente dal Mediterraneo (ma la collana è di origine baltica) ci rivelano un'Europa preistorica di gran lunga più civile di quel che avremmo forse supposto nella quale non isolati avventurieri, ma persone malate e gruppi familiari come quello di cui probabilmente il ragazzo faceva parte, nonché merci come la collana di ambra baltica, potevano percorrere grandi distanze, e la stessa cosa avveniva probabilmente per le notizie, se la fama del santuario nella piana di Salisbury, una Lourdes neolitica, come è stato definito, aveva potuto attirare pellegrini da luoghi così lontani.

Il resto della conferenza che, come vedete, ha trattato uno spettro di argomenti davvero ampio, ha riguardato la tomba neolitica irlandese di Newgrange, il complesso di monumenti noti come Cuore neolitico delle Orcadi che nel 1999 è stato dichiarato dall'UNESCO patrimonio dell'umanità (ciò nonostante, quanti di voi ne hanno sentito parlare?), il grande cromlech di Avebury, che copre un'area quattro volte maggiore di quella di Stonehenge, quel singolare monumento che è la collina artificiale di Silbury Hill, quell'autentico mistero archeologico che è rappresentato dai forti vetrificati dell'Età del Ferro, eretti in Scozia, Inghilterra, Francia, (Bretagna), che costituiscono un enigma non solo riguardo alle popolazioni che li hanno eretti, ma soprattutto per le tecniche con le quali potrebbero essere state ottenute le altissime temperature necessarie a fondere il granito in modo che i blocchi di pietra si amalgamassero in un unico impasto vetroso.

Ancora, ho parlato di due scoperte recenti, nelle Orcadi il sito noto come Ness of Brodgar, dove sono emersi i resti di una vasta struttura oggi nota come la “cattedrale neolitica” e, sempre in Scozia, quella che è forse la scoperta più sensazionale: nel sito scozzese di Warren Field l'individuazione di dodici fosse di età mesolitica che sembrano con il loro allineamento aver costituito un vero e proprio calendario lunare, uno strumento di misurazione del tempo di quasi 5000 anni più antico del più antico calendario mediorientale noto.

Altrettanto importanti i ritrovamenti effettuati fuori dalle Isole Britanniche e, come ho detto all'inizio, proprio per il “target” della conferenza, mi sono attenuto all'esame di quelli che interessano in qualche modo l'area celtica, ma l'Europa mediterranea è di certo altrettanto ricca di sorprese, di scoperte inaspettate che non si possono inquadrare nello schema “ufficiale” che sostiene la derivazione della civiltà europea dal Medio Oriente.

A parte gli allineamenti megalitici di Carnac in Bretagna, se ci spostiamo nell'area germanica, c'è da segnalare in primo luogo il complesso megalitico di Externsteine, una vera e propria “Stonehenge tedesca”. Ancora oggi la tradizione attribuisce al luogo la presenza di influenze magiche, al punto che Heinrich Himmler scelse il castello di Wevelsburg che si trova nei pressi del complesso megalitico come “casa madre” dell'ordine delle SS. Tuttavia, Externsteine non è qualcosa di unico: nel 2003 gli archeologi hanno portato alla luce nel sito di Gosek in Sassonia-Anhalt un'altra “Stonehenge tedesca” ancora più antica. Questa scoperta, poi, si pone in relazione con quella di quello straordinario manufatto, un vero e proprio astrolabio preistorico che condensa una conoscenza astronomica raffinata, che è il disco di Nebra.

Infine, proprio per non farci mancare nulla, anche un sito ben conosciuto di età storica come è, sempre in Germania, il sito celtico di Heuneburg, ci ha riservato in tempi recenti con il ritrovamento della tomba intatta, sfuggita ai saccheggiatori, di una principessa celtica, e il materiale ritrovato in essa ci ha permesso di farci una nuova idea della cultura celtica, più evoluta e raffinata di quel che avevamo finora pensato.

Non si rende giustizia a tutte queste scoperte che ci rimandano un'immagine del nostro passato europeo molto diversa da quella che ci è stata finora proposta e viene tuttora graziosamente ammannita dai testi scolastici con un'esposizione così a volo d'uccello, ma abbiamo parlato più volte di queste tematiche e ne riparleremo in futuro. I due prossimi articoli, infatti, saranno le due parti della conferenza che ho tenuto al festival celtico Triskell  quest’anno.

Tuttavia, una cosa è assolutamente chiara: se la “scienza” ufficiale fosse la ricerca spassionata e obiettiva della verità che dichiara di essere, sarebbe veramente incredibile che questi cosiddetti ricercatori e scienziati ignorino una messe di dati così vasta, mentre si esaltano per l'ultimo coccio di vaso ritrovato in Medio Oriente. Una visione della civiltà umana nella quale il ruolo dell'Europa è brutalmente minimizzato fa parte di un preciso disegno politico, è parte di quel cloroformio mentale che vorrebbe indurci ad accettare senza resistenze la sostituzione etnica e la sparizione dei popoli europei.

Noi però sappiamo di avere una grande eredità da difendere, e che la consapevolezza del passato è uno strumento indispensabile per costruire il futuro.

L'illustrazione che correda questo articolo è una suggestiva immagine degli allineamenti megalitici di Carnac (Bretagna).

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantottesima parte – Fabio Calabrese

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Una parte degli articoli che sono compresi sotto quella che io penso si possa ormai considerare una vera e propria rubrica a scadenza quasi fissa sulle pagine della nostra “Ereticamente”, come avete visto, è stata dedicata a scoperte sorprendenti ed eccezionali sulle nostre origini, scoperte che consentono di rimettere in discussione l'ortodossia “scientifica” che ci è imposta o ci si vuole imporre a questo riguardo, e da questo punto di vista il 2017 si è dimostrato un anno davvero ricco, con tre scoperte eccezionali che si sono succedute in un lasso di tempo relativamente breve, il ritrovamento dei resti dell'ominide balcanico noto come “El Greco”, quello dei fossili umani sapiens risalenti a 300.000 anni fa ritrovati nella cava marocchina di Jebel Irhoud, e soprattutto la scoperta di due biologi dell'università di Buffalo, Omer Gockumen e Stefan Ruhl, che hanno scoperto che una proteina della saliva, la MUC7 è presente nei neri in una variante che non si riscontra in nessun'altra popolazione umana, vivente o estinta, e che potrebbe essere la traccia genetica di un homo arcaico o di un ominide, una specie fantasma (cioè di cui per ora non abbiamo evidenze fossili) con cui gli homo sapiens che hanno colonizzato l'Africa provenendo dall'Eurasia si sarebbero incrociati. I due biologi fanno notare che il movimento espansivo della nostra specie non può essere avvenuto nella direzione opposta, dall'Africa verso l'Eurasia, perché altrimenti questa variante della MUC7 si troverebbe, magari minoritaria anche in altri gruppi umani.

Abbiamo insomma la prova che l'Out of Africa è falsa, e che non “veniamo dai neri”.

Dopo un seguito di scoperte di questo genere, sarebbe strano che la serie continuasse in tempi ravvicinati con lo stesso ritmo. Tuttavia gli articoli di questa rubrica hanno un'altra ragion d'essere, forse più modesta, quella di offrire un resoconto di come il dibattito sulle nostre origini si sviluppa all'interno della nostra Area, e questo nondimeno è un fatto politico importante, che esista fra noi un desiderio di penetrare fino a fondo le tematiche relative alla  nostra identità, come risposta e contrappeso alla prospettiva che incombe su di noi, della cancellazione di questa identità attraverso l'imposizione del meticciato e della società multietnica, e nell'attesa di ciò, dell'imposizione di una “cultura mondialista” sia attraverso la scuola sia attraverso i media, nella quale il valore dell'identità etnica e di sangue è costantemente negato.

Cominciamo con una notizia che risale a settembre: nella località di Trachilos nella parte occidentale dell'isola di Creta sono state trovate impronte sorprendentemente umane risalenti a 5,7 milioni di anni fa. Maurizio Blondet ne ha parlato in un articolo pubblicato sul suo sito “Blondet & Friends” del 4 settembre 2017.

Io credo sia opportuno collocare questa notizia e l'articolo di Blondet nel secondo gruppo, quello delle, chiamiamole così, “comunicazioni di servizio” e almeno stavolta smorzare un po' gli entusiasmi, perché la notizia, soprattutto in vista di una simile datazione, va accolta con un certo scetticismo.

Quel che distingue un ominide da una scimmia antropomorfa e ci permette di riconoscerlo come un lontano precursore dell'umanità, sono oltre ai piccoli canini e l'arcata dentaria tondeggiante che anticipano il modello umano, la stazione eretta e una conformazione degli arti inferiori e dei piedi di conseguenza simile a quella umana. Le famose impronte di Laetoli attribuite ad Australopithecus afarensis (la specie di Lucy) sono di fatto indistinguibili da quelle umane. Il grosso “salto” nella deambulazione e quindi nella conformazione del piede e delle impronte che si possono lasciare non è fra uomo e ominide, ma fra quest'ultimo e la scimmia antropomorfa, le cui impronte si possono facilmente distinguere a causa della sporgenza laterale dell'alluce, che segnala il piede prensile di un quadrumane.

Le ossa fossili danno indicazioni più certe, e non c'è un fossile chiaramente riconoscibile come umano di un'età superiore ai due milioni di anni. Impronte umane o ominidi? La datazione direbbe ominidi. Io ho il sospetto che si tratti semplicemente delle impronte di “El Greco” o di un suo parente prossimo.

Alcuni anni fa, esattamente nel 2013, furono ritrovate in Inghilterra, sulla sponda del Tamigi, impronte fossili risalenti a 900.000 anni fa, quindi molto più recenti di quelle cretesi e con tutta probabilità di homo, ma quale homo?, Erectus o sapiens? Impossibile stabilirlo!

Ne parlò anche allora Maurizio Blondet in un articolo sul suo sito EffeDiEffe (poi diventato “Blondet & Friends”), articolo che fu poi ripubblicato dal sito della Arianna Editrice in data 16/2/2014. Io allora non ve ne parlai, perché mi pare che la cosa non spostasse sostanzialmente il dibattito sulle nostre origini.

Certamente per alcuni, l'idea di un homo vecchio di sei milioni di anni, che metterebbe in crisi lo schema dell'evoluzione umana come finora la conosciamo, è una forte tentazione, perché nei nostri ambienti è diffusa la convinzione, assolutamente erronea che l'evoluzione sia “una cosa di sinistra”; è un'idea falsa che rivela la sudditanza all'armamentario ideologico dei nostri avversari. L'ho ribadito più volte, ed è una questione sulla quale mi riprometto di tornare a breve tempo con la dovuta ampiezza nella quarta parte di Scienza e democrazia che sarà dedicata in particolare alle distorsioni che l'ideologia democratica impone alla scienza biologica.

Riassumendo ora la questione in estrema sintesi, si può dire che la tendenza dei viventi a preservare e diffondere nelle generazioni future la propria linea  “di sangue” (ma vale anche per le piante che di sangue non ne hanno) e la dura legge della selezione naturale, della lotta per l'esistenza, sono l'esatto contrario del buonismo catto-sinistrorso che in termini biologici significa semplicemente il suicidio.

Soprattutto, bisogna stare attenti a non assumere posizioni che si prestano a essere non solo facilmente smentite, ma anche ridicolizzate. Per questo motivo, mi scuserete, ma io preferisco catalogare questa nuova scoperta e le discussioni che ne sono nate, piuttosto nell'ambito delle “comunicazioni di servizio” che in quello delle scoperte che possono realmente rivoluzionare l'idea che ci facciamo delle nostre origini.

Aggiungiamo comunque questa scoperta all'elenco degli eventi del 2017, un anno che si sta rivelando straordinariamente ricco di nuove informazioni circa le nostre origini, e che impone di rivedere le idee al riguardo imposte come prefissate nell'ambito di una visione “politicamente corretta” sedicente scientifica.

Su queste pagine vi ho parlato più volte dell'ottimo lavoro compiuto dall'amico Michele Ruzzai con il suo gruppo facebook “MANvantara” che recentemente ha superato il migliaio di iscritti, e che è una vera miniera di documenti utilissimi a chi voglia orientarsi sulla tematica delle origini nell'ambito della nostra ottica “politicamente scorretta”. (Nel caso che qualcuno sia punto dalla curiosità, Manvantara è il ciclo cosmico secondo la tradizione vedica; e nella denominazione del gruppo si è evidenziata in maiuscolo la sillaba iniziale MAN, antica radice indoeuropea che si trova inalterata nelle lingue germaniche, che ha il significato di “uomo”).

Credo finora però di non avervi menzionato se non per vaghi accenni un altro gruppo facebook che sta facendo un lavoro molto simile a quello di “MANvantara”, si tratta di “Frammenti di Atlantide-Iperborea” curato da Solimano Mutti. Io penso che tutti noi siamo fondamentalmente contrari ai personalismi e nepotismi, tuttavia ricordare che Solimano è il figlio di Claudio Mutti, persona a cui lo sviluppo delle tematiche del revisionismo olocaustico in Italia deve tantissimo, non gli va certo a discapito.

Anche in questo caso, il nome del gruppo permette di comprendere bene l'ottica in cui il gruppo stesso si colloca: Atlantide e Iperborea sono due miti (miti nel senso alto del termine) fondanti della tradizione indoeuropea, e si pongono su di un asse concettuale esattamente opposto a quello dell'attuale ideologia “scientifica” politicamente corretta che cerca le origini della nostra specie nelle savane africane e quelle della civiltà in Medio Oriente, escludendo sempre e comunque il ruolo creativo dell'uomo europeo e nordico.

Una cosa che va evidenziata, è che non essendo questi gruppi delle imprese commerciali, non è che si facciano concorrenza, anzi, si può dire che creino una sinergia nel contrapporsi al dogmatismo di una “cultura” dominante, di un'oppressiva ortodossia ideologica che vorrebbe imporci l'idea su noi stessi e sulle nostre origini che fa più comodo al potere che ci opprime ormai da quasi tre quarti di secolo. In quest'ottica, io trovo che il loro lavoro vada considerato in termini di sinergia e di integrazione rispetto a quello che io stesso sto cercando di portare avanti sulle pagine di “Ereticamente”, attraverso le quali ho l'opportunità, certamente, di rivolgermi a una platea di lettori molto più vasta, ma il mio resta il lavoro di una persona sola, “one man's band”, mentre questi gruppi possono avvalersi di una molteplicità di contributi.

Recentemente (10 settembre), un lettore di “MANvantara” ha posto al gruppo un quesito importante: se noi pensiamo che, secondo le teorie razziali sviluppate soprattutto in Germania tra il XIX secolo e il 1945, l'uomo nordico rappresenti la crema, l'aristocrazia dei popoli indoeuropei, come spieghiamo il fatto che le grandi civiltà europee antiche, quella ellenica e quella romana, si sono sviluppate nell'area mediterranea?

A mio parere, la risposta a questa domanda va data su due piani diversi. Per prima cosa, bisogna ricordare che coloro che svilupparono l'indoeuropeistica tra la metà del XIX secolo e quella del novecento erano, appunto, perlopiù tedeschi e animati da uno spirito nazionalistico-campanilistico peraltro comprensibile dati i tempi. Noi oggi ci rendiamo conto che come europei e indoeuropei mediterranei, non dobbiamo soffrire di alcun complesso di inferiorità nei confronti dei nostri cugini del nord. Non solo, ma oggi che sciaguratamente dobbiamo confrontarci con un'invasione allogena travestita da immigrazione che mette in pericolo le nostre identità storiche, possiamo renderci conto che, con qualche variazione locale, noi Europei siamo sostanzialmente la stessa gente, e dovremmo difenderci insieme dai nemici comuni.

Su di un altro piano, è molto chiaro che, come si sono finora sviluppate le scienze storiche (per quanto riguarda la storia antica) e archeologiche, sono molto lontane dal rappresentare un'immagine realistica del nostro passato, e che l'Europa non mediterranea è oggetto di una considerevole sottovalutazione. Io non vorrei sembrare monotono battendo troppo su questo tasto, ma si tratta di un punto fondamentale: i complessi megalitici, quelli notissimi delle Isole Britanniche, Stonehenge, Newgrange e via dicendo, ma anche quelli dell'Europa continentale: Externsteine, Gosek che sono infinitamente meno noti dei loro equivalenti britannici, inducono a pensare a un livello di civiltà molto più elevato di quanto solitamente non si consideri.

E non parliamo dell'alto nord dell'Europa, il mondo scandinavo. Prendendo in mano un testo come Omero nel Baltico di Felice Vinci, possiamo essere persuasi oppure no della sua tesi di fondo secondo cui l'epopea omerica sarebbe nata nel nord dell'Europa per essere poi ri-ambientata nella penisola ellenica a seguito della migrazione verso meridione degli antenati degli Achei, ma ciò che dopo la lettura di questo testo supportato da un'abbondanza di dati archeologici da noi poco o nulla affatto conosciuti, non è possibile mettere in dubbio, è la ricchezza dell'Età del Bronzo nordica.

Dovunque volgiamo lo sguardo, spingendolo fin nell'antichità più remota che riusciamo a penetrare, vediamo dovunque la stessa luce, la luce della nostra grande eredità storica di europei, un'eredità oggi minacciata dallo stravolgimento etnico come mai lo è stata nel passato.

NOTA: Nell'illustrazione di questo articolo, a sinistra la locandina della conferenza Le origini antiche degli Indoeuropei, tenuta da Michele Ruzzai a Trieste il 27 gennaio 2016, al centro un'illustrazione tratta da “Frammenti di Atlantide-Iperborea”, a destra la copertina del libro Omero nel Baltico di Felice Vinci.


Una Ahnenerbe casalinga, cinquantanovesima parte – Fabio Calabrese

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Ci lasciamo alle spalle un periodo eccezionalmente denso di scoperte sulle nostre origini, che comprende il rinvenimento dei resti dell'ominide balcanico “El Greco”, dei fossili sorprendentemente umani moderni rinvenuti nella località marocchina di Jebel Irhoud, l'individuazione della “specie fantasma”, l'ominide con cui sarebbero imparentati i neri africani, le cui tracce i ricercatori dell'Università di Buffalo avrebbero individuato nelle proteine della saliva di questi ultimi (elemento che come abbiamo visto, mette fortemente in crisi “la teoria” dell'Out of Africa), e proprio per non farci mancare nulla, ricordiamo anche la recente scoperta di impronte “umane” fossili sull'isola di Creta risalenti alla bellezza di sei milioni di anni or sono, anche se a mio parere proprio questa straordinaria antichità rende improbabile che si tratti di impronte di un qualsivoglia homo, e molto più facile che siano invece quelle di un ominide, “El Greco” o un suo parente stretto. Ricordiamo infatti che il grande cambiamento nella locomozione, con l'acquisizione della stazione eretta, e quindi con la modifica della conformazione del piede e del tipo di impronte lasciate, non è avvenuto nella transizione da ominide a homo, ma in quella da scimmia antropomorfa a ominide.

Dopo tutto questo, sarebbe ben strano che emergessero ulteriori novità rivoluzionarie a così breve scadenza, sarebbe davvero chiedere troppo alla dea fortuna, però non è mancata negli ultimi tempi qualche scoperta significativa che viene ad arricchire sempre più il quadro delle informazioni sulle nostre origini, e che fanno anch'esse si che la nostra storia ancestrale sarebbe tutta da riscrivere, almeno se la “ricerca scientifica” sulla nostra storia ancestrale da parte della “scienza” ufficiale fosse qualcosa di oggettivo invece dell'opera propagandistica che sostanzialmente è.

Devo ammetterlo, con la tempistica di “Ereticamente” non mi è possibile “stare sul pezzo” in tempo reale come è invece possibile fare in un gruppo facebook come “MANvantara” del nostro amico Michele Ruzzai, che difatti anche stavolta mi ha preceduto, anche se qui abbiamo uno spazio maggiore di approfondimento, nonché l'accesso a un pubblico di lettori certamente più vasto.

In data 12 settembre su questo gruppo è stato postato un link molto interessante, si tratta di un collegamento a You Tube, a un filmato di provenienza americana che porta un chiarimento essenziale a una delle questioni più controverse della paleoantropologia. La più antica civiltà dell'America precolombiana è stata quella degli Olmechi, la cui cultura si sviluppò nel Messico centro-meridionale tra il 1400 e il 400 avanti Cristo. Costoro ci hanno lasciato una serie di reperti enigmatici fra cui alcune enormi teste di pietra. I personaggi raffigurati in queste statue hanno narici larghe e labbra carnose. Questo ha fatto sì che molti vi vedessero delle caratteristiche negroidi. Afroamericani e loro amici sostenitori di teorie afro-centriche hanno ipotizzato una colonizzazione proveniente dall'Africa all'origine della cultura olmeca (cosa di per sé ben poco verosimile, perché sul suolo africano non troviamo tracce di una cultura analoga, ma sappiamo che per i sostenitori della Political Correctness non è che i fatti contino molto).

Bene, questo documentario mette le cose a posto, nel senso che un attento confronto lineamento per lineamento fa vedere che la fisionomia delle teste olmeche non corrisponde per nulla a quella dei neri africani mentre al contrario ha una spiccata somiglianza con quella degli Amerindi locali.

Al riguardo, potrei ricordare di essermi occupato della questione anni addietro in un articolo, La storia perduta delle Americhe, che mi fu pubblicato sul n. 7, gennaio-febbraio 2012, della rivista “Runa Bianca”. A me era sembrato che gli Olmechi somigliassero piuttosto alle popolazioni dell'Asia meridionale (malesi, ad esempio) piuttosto che ai neri africani e che, come gli altri amerindi, avessero la loro origine in popolazioni paleomongoliche che non presentavano ancora i tratti che consideriamo tipicamente “mongolici”, come la plica palpebrale che forma il classico “occhio obliquo” e, a quanto pare, non ero andato molto lontano dalla verità.

Viene meno un'altra presunzione di creatività dei neri subsahariani, una notizia che dovrebbe dispiacere moltissimo a coloro che cercano ingannevolmente di venderceli come “risorse”.

Il gruppo del nostro amico è di grande interesse proprio perché grazie all'apporto di diversi collaboratori, presenta una notevole varietà di spunti e di approcci differenti fra i quali ciascuno di coloro che sia interessato a queste problematiche, può “scavarsi” un proprio percorso di ricerca.

In data 16 settembre un collaboratore di “MANvantara” ha pubblicato un link al sito di “Informare per resistere”, e ora arrivo io, buon terzo. Bisogna dire però che la tematica è di grande interesse, si tratta infatti di una recensione del libro L'origine dell'uomo ibrido di Daniele Di Luciano, un testo che presenta un'ipotesi davvero inedita sulle nostre origini, e che mi pare meriti di essere presa in attenta considerazione.

Noi sappiamo che il nostro DNA conserva la traccia di diverse ibridazioni tra popolazioni antiche di homo. Noi non discendiamo solo dall'uomo di Cro Magnon (il sapiens “classico”) ma anche dall'uomo di Neanderthal (europei e asiatici), dell'uomo di Denisova (asiatici e australoidi), della “specie fantasma” la cui traccia genetica è rivelata dalla proteina della saliva MUC7 (neri subsahariani). Lo abbiamo visto più volte.

Ma a parte ciò, non potrebbe essere che lo stesso genere homo sia il frutto di un'ibridazione molto più antica? Quali sono gli elementi che Di Luciano porta a sostegno di quest'ipotesi?

  Bisogna notare per prima cosa che a differenza della credenza popolare, non è affatto detto che tutte le ibridazioni, cioè gli incroci fra individui di specie diversa siano sterili o producano necessariamente figli sterili. Fra i modi in cui può avere origine una nuova specie, i biologi distinguono l'isovariazione in cui una specie “figlia” deriva da una specie “madre” dalla mistovariazione in cui una nuova specie nasce dall'accoppiamento degli individui di due specie genitrici, che producono in questo caso una discendenza fertile.

Quali sono gli indizi che farebbero pensare che il genere homo potrebbe essersi originato dall'ibridazione di due diverse specie ominidi?

Prima di tutto il fatto che la donna, a differenza delle femmine di quasi tutti i mammiferi, partorisce con dolore. In altre specie, il parto doloroso si presenta tipicamente nel caso di un'ibridazione, ad esempio quando un'asina partorisce un bardotto (ibrido cavallo-asina, differente dal mulo che è l'ibrido asino-cavalla). Un altro indizio sono le dimensioni notevoli se confrontate con quelle degli antropomorfi, che l'uomo raggiunge nel suo sviluppo, anche questo trova un parallelo negli ibridi, ad esempio il “ligre”, ibrido di leone e tigre, che raggiunge una taglia notevolmente maggiore di quella dei genitori, ed è il felino più grande del mondo.

Il peccato originale che la bibbia ci racconta essere stato all'origine della nostra specie, si chiede Di Luciano, potrebbe essere stato un atto di ibridazione?

Un'ipotesi di grande interesse, che potrebbe essere o non essere valida, ma che di sicuro evidenzia quanto lo storia remota della nostra specie sia densa di enigmi irrisolti.

Sempre da “MANvantara” riporto una notizia piuttosto singolare: sembra che le impronte cretesi di cui abbiamo parlato siano state scalpellate e asportate.

Un simile atto vandalico potrebbe essere puramente gratuito come spesso succede, od opera di qualche “collezionista”, oppure...oppure sembra che le prove e le testimonianze che potrebbero contraddire la versione ufficiale della nostra storia siano costantemente in pericolo.

Decenni fa, sembrava che il governo boliviano fosse deciso a far saltare con la dinamite la puerta do sol di Tihuanaco (Tiwanaku), e dovette rinunciare al proposito perché si tratta di uno dei monumenti più noti delle colture precolombiane. Ora, guarda caso, il complesso archeologico di Tihuanaco ha una particolare rilevanza nella cosmologia di Hörbiger, sarebbe la traccia di una civiltà umana preesistente la caduta dell'ultima luna. Vero o no, per la “correttezza politica” democratica sul nostro passato, sarebbe meglio far sparire questo imbarazzante complesso archeologico.

In tempi più recenti, il governo britannico è stato vicino a demolire Stonehenge per far passare nella piana di Salisbury un'autostrada a quattro corsie. Proteste internazionali hanno bloccato lo scempio e l'autostrada oggi passa semplicemente vicino a Stonehenge. Poco tempo dopo, fu invece necessario mobilitare con una petizione internazionale gli ambienti “celtici” di tutto il mondo da parte del clan Wallace per impedire la demolizione della stalla dove fu catturato William Wallace per fare posto a un supermercato. Naturalmente William Wallace “Braveheart” e la sua vicenda non hanno a che fare con la preistoria, ma riguardano tempi molto più recenti, tuttavia sono innegabilmente un segno forte dell'identità scozzese.

Probabilmente non è privo di significato neppure il fatto che contro le testimonianze del passato e dell'identità si brandiscano proprio quelli che possiamo considerare i simboli più sfacciati della modernità: l'autostrada a quattro corsie e il supermercato.

In qualche caso, tuttavia, non è stato possibile evitare lo scempio apparentemente insensato ma in realtà finalizzato a eliminare ciò che potrebbe contraddire una versione “politicamente corretta” delle nostre origini e della nostra storia remota. Un caso veramente triste ed emblematico è stato quello della piramide di Nizza, di cui diede notizia il periodico “Shan Newspaper” in data 12 febbraio 2015. Stando a quel che ancora oggi le fotografie consentono di vedere, nella città natale di Garibaldi, o più esattamente nella località di Saint André a nord-est della stessa, è esistita una piramide a gradoni di grandi dimensioni, abbastanza simile a quella egizia di Saqqara, sempre ignorata dai ricercatori ufficiali, e che alla fine è stata demolita negli anni '70 per fare posto a uno svincolo autostradale.

Una sorte non molto migliore ha avuto un'altra piramide che ha la disgrazia di non trovarsi né in Egitto né in Mesopotamia, ma in un luogo dove secondo la “scienza” e “archeologia” ufficiali, piramidi antiche non ne dovrebbero sorgere, vale a dire in Europa, in Italia e più precisamente in Sardegna, a Monte D'Accoddi, (Sassari). Questa piramide risalente all'epoca pre-nuragica, non è stata mai seriamente studiata, ed è stata lasciata in un totale stato di incuria e di abbandono, al punto che le sue pietre sono state ripetutamente asportate e riutilizzate in costruzioni moderne.

Il caso forse più vergognoso è però un altro, ed è anch'esso uno scandalo italiano: quello dell'uomo di Savona di cui anni fa ha diffusamente parlato un articolo pubblicato dal “Centro Studi La Runa: uno scheletro umano che fu trovato casualmente durante lavori di sbancamento nella città ligure: la stratigrafia del terreno in cui fu ritrovato faceva supporre che potesse risalire all'età pleistocenica, 2 milioni di anni or sono, ed era tale da escludere che potesse trattarsi di una sepoltura intrusiva molto più recente. L'aspetto era chiaramente umano. Si trattava dunque di un ritrovamento in grado di mettere in crisi la storia delle nostre origini come ci viene solitamente raccontata. Non fu mai seriamente studiato fino a quando le sue ossa non andarono disperse in circostanze che hanno dell'incredibile per un reperto di una simile importanza, o meglio che avrebbero dell'incredibile se non pensassimo a una distruzione intenzionale di un reperto imbarazzante in grado di contraddire l'immagine delle nostre origini che ci viene solitamente ammannita.

Quando non è possibile distruggere fisicamente un reperto, si può sempre, per così dire, “distruggerlo moralmente”, condannarlo all'oblio, escluderlo in ogni caso dal novero delle cose che possono modificare la nostra visione del mondo. Un esempio palmare in questo senso è rappresentato dai reperti ritrovati nell'ipogeo francese di Glozel. Questi reperti sono stati subito dichiarati falsi senza essere stati neppure esaminati dai cosiddetti esperti, in base all'assunto che sono “troppo evoluti” rispetto alle condizioni che si suppone caratterizzassero l'Europa preistorica, e sono stati condannati a una damnatio memoriae al punto che oggi pochissimi sono a conoscenza della loro esistenza, e credo che nessun testo “storico” o “scientifico” ne faccia menzione.

Ciò che tutti ignorano, ciò della cui esistenza sono state distrutte le prove, non è mai esistito. La storia può essere riscritta in funzione degli interessi del potere. E' la prassi usata dal regime del Grande Fratello così come l'ha descritto George Orwell in 1984. E' la prassi usata nella realtà da una “scienza” e da una “cultura” di una democrazia che somiglia all'incubo orwelliano ogni giorno di più.

NOTA:

Nell'illustrazione: a sinistra una statuetta olmeca. In questo caso è evidente che i lineamenti dell'uomo raffigurato non hanno alcuna somiglianza con i neri subsahariani. Al centro, la copertina del libro L'origine dell'uomo ibrido di Daniele Di Luciano. A destra, una tavoletta proveniente dall'ipogeo di Glozel, coperta dai segni di una scrittura che finora nessuno è riuscito a tradurre.

Una Ahnenerbe casalinga, sessantesima parte – Fabio Calabrese

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Non è sorprendente il fatto che questa serie di articoli che io penso ormai si possa considerare una vera e propria rubrica sulle pagine di “Ereticamente” sia ormai giunta al sessantesimo numero. Considerando il fatto che essa ha una cadenza bisettimanale (approssimativamente), e che avevamo già toccato la quota cinquanta, aggiungere altri dieci numeri non ha richiesto altro che un intervallo temporale di cinque mesi. Il fatto sorprendente è un altro: nella ricerca scientifica le novità, le scoperte non sono come nell'attualità, la politica, lo sport o il gossip, eppure abbiamo visto una cadenza di eventi sufficiente, per quanto riguarda la tematica delle nostre origini, a permettere di tenere questa rubrica con regolarità. Si direbbe quasi che, oggi che vediamo l'homo europeus minacciato nella sua stessa identità biologica da un'invasione mascherata da immigrazione e dal meticciato, qualcuno o qualcosa cerchi disperatamente di ricordarci la nostra eredità e il fatto innegabile che, a dispetto di tutte le utopie marxiste e cristiane, ciò che fa di un essere umano quello che è non si risolve interamente nell'apprendimento, nella cultura, nell'influenza dell'ambiente, ma dipende anche e soprattutto dalla sua base genetica, dalla sua eredità biologica.

A ogni modo, il 2017 ci ha presentato quanto meno tre scoperte fondamentali che ci hanno imposto di ridisegnare il quadro delle nostre origini: la scoperta dei resti dell'ominide balcanico che è stato soprannominato “El Greco”, cosa che pone seriamente in dubbio il presupposto in base al quale homo deve essersi originato in Africa perché gli ominidi verrebbero da lì, il ritrovamento in Marocco nella cava di Jebel Irhoud di resti umani sapiens moderni risalenti a 300.000 anni fa (E' vero che questa scoperta è avvenuta in Africa, ma si tratta dell'Africa mediterranea e non di quella subsahariana, non solo, ma la scala dei tempi non è compatibile con la formulazione classica dell'Out of Africa – Out of Africa II – che presuppone che la nostra specie non abbia cominciato a diffondersi prima di 70.000 anni fa, dopo la presunta mega-eruzione del vulcano Toba, e soprattutto questi antichi magrebini non presentano nessuna caratteristica che li apparenti alle popolazioni subsahariane), ma soprattutto, di fondamentale importanza, i risultati dello studio condotto da due biologi dell'Università di Buffalo, Omer Gokcumen e Stefan Ruhl, sulle proteine della saliva, in particolare la MUC7, che ha permesso una ricostruzione dell'albero genealogico umano che ne mostra chiaramente l'origine in Eurasia, mentre la colonizzazione dell'Africa da parte di homo sapiens e la formazione delle caratteristiche subsahariane, dovuta all'incrocio con un'ominide separatosi dalla linea umana principale 1,2 milioni di anni fa, sarebbero eventi tardivi.

In occasione della cinquantesima parte della nostra rubrica, vi avevo presentato una sintesi a grandissime linee di tutto il discorso fatto fin allora. Avevo pensato anche di riepilogare, sempre cercando di essere sintetico al massimo, anche i diversi scritti che non sono rientrati sotto questo titolo, sotto i quali avevo affrontato la tematica delle origini (che è ovviamente vasta e della quale, oltre alla questione delle lontane origini della nostra specie, mi è sembrato di individuare altri tre livelli: le origini dei popoli indoeuropei, quelle della civiltà europea, e quelle della nazione italica. Quest'ultimo argomento, a mio parere è molto importante, vista la diffusione della favola della totale eterogeneità genetica del popolo italiano), ma questo implicava dilatare un bel po' lo spazio di questo lavoro “rievocativo”, e soprattutto mi pareva di mettere i miei scritti in quanto scritti da me, un po' troppo al centro dell'attenzione. Forse da questo punto di vista mi sono preoccupato eccessivamente. Io penso che tutti voi capiate che quello che conta non è la persona di Fabio Calabrese, ma il fatto di avere l'occasione di ripetere alcuni concetti basilari della nostra Weltanschauung in contrapposizione a una “cultura” e a un'ortodossia “democratiche” basate su convinzioni di tutt'altro segno, poiché nella misura in cui siamo in grado di farlo, dobbiamo concorrere alla formazione della visione del mondo soprattutto dei più giovani, che si trovano ad avere una disperata necessità di disporre degli strumenti per resistere alle mistificanti distorsioni della “democrazia”. Quella parte del lavoro non fatta allora, vedremo perciò di farla ora.

E' il caso di rilevare, non solo che a un certo punto, per non rendere la vita troppo difficile a voi e a me, ho deciso di concentrare sotto un unico titolo tutte le tematiche riguardanti le origini, ma che inizialmente non mi ero proposto di rimontare alle tematiche paleoantropologiche, ai milioni, alle centinaia o alle decine di migliaia di anni fa, accontentandomi di una prospettiva più recente, ma man mano mi addentravo in questo lavoro, più diventava chiaro che questa prospettiva doveva essere affrontata, perché la “teoria” dell'Out of Africa, ben lungi dall'essere qualcosa di neutro, è un vero e proprio grimaldello ideologico per imporre il concetto dell'inesistenza delle razze umane e tutto l'armamentario dell'ortodossia ideologica “politicamente corretta” che ci viene imposta da oltre Atlantico, travestita da ricerca scientifica. Inizialmente, mi ero accontentato di tematiche più vicine all'orizzonte storico, a cominciare da quella dell'origine dei popoli indoeuropei a cui ho dedicato alcuni articoli omonimi. Al riguardo, la versione “politicamente corretta”, cioè conforme alle distorsioni dell'ortodossia ideologica democratica travestita da ricerca scientifica ci racconta la favola dell'origine mediorientale delle lingue e dei popoli indoeuropei, che non sarebbero stati cavalieri e guerrieri nomadi, ma pacifici agricoltori che si sarebbero espansi attraverso l'Anatolia, il Bosforo, i Balcani e via dicendo semplicemente spostandosi alla ricerca di nuove terre da coltivare. Una delle culture europee che hanno preceduto la diffusione degli Indoeuropei sul nostro continente, probabile antesignana degli Indoeuropei stessi, è stata quella dell'ascia da combattimento. La mia impressione è che lo scopo di questa “teoria” sia quello di togliere l'ascia da combattimento dalle mani dei nostri antenati sostituendola con la zappa del contadino, per disarmare psicologicamente noi.

La genetica ha dimostrato che questa “teoria” è falsa; infatti, se fosse vera, si riscontrerebbe nel pool genetico degli Europei una proporzione di geni di origine mediorientale molto più alta di quella che effettivamente si constata. La netta maggioranza del nostro genoma, invece risale al tipo antropologico caucasico noto come “eurasiatico settentrionale” presente in Europa fin dal Paleolitico superiore. Qui abbiamo l'occasione di vedere il modus operandi tipico della democrazia, quello che ritroviamo sempre: essa non può inibire del tutto la ricerca scientifica, pena il rendere troppo esplicita la sua natura autoritaria, ma non ha importanza il fatto che le conoscenze reali rimangano confinate a una ristretta cerchia di specialisti, perché in ogni caso attraverso il sistema mediatico si continueranno ad ammannire al grosso pubblico le falsità che fanno comodo al regime/ai regimi, e infatti quella dell'origine mediorientale continua a essere la storia che viene raccontata dai testi scolastici alle trasmissioni divulgative, benché palesemente falsa. Un altro gruppo di articoli ha un titolo che può sembrare curioso, mi sono infatti occupato dei popoli “sull'orlo della storia”. Di che cosa si tratta? Mettiamola in questi termini: la ricerca storica degli ultimi due secoli ha articolato, ampliato, approfondito ma mai definitivamente abbandonato uno schema storico la cui origine è biblica: le popolazioni caucasiche sono state distinte in tre rami che si sono supposte discendenti dai tre figli di Noè: i semiti da Sem, i camiti (Egizi, Berberi, Numidi) da Cam, gli indoeuropei da Jafet. A mio parere occorre abbandonare l'idea che la bibbia abbia una qualche storicità, che sia qualcosa d'altro che una raccolta di leggende tramandate da gente che nulla sapeva del mondo al di fuori dei limiti segnati dal Nilo e dall'Eufrate. Se noi consideriamo la storia dell'Europa antica, troviamo svariate popolazioni che sono definite genericamente “non indoeuropee” definizione che nella sua vaghezza potrebbe andare altrettanto bene per gli Esquimesi e per i Papua, e non si tratta di popoli marginali, ma di grandi culture, Etruschi, Minoici, Iberici, Liguri (un tempo diffusi non solo nell'angolo di nord-ovest della nostra Penisola, ma in gran parte della Francia meridionale). Non è possibile riscrivere la bibbia per aggiungervi un quarto figlio di Noè, ma non si può negare l'esistenza di un quarto gruppo “mediterraneo” di popolazioni dell'Europa antica, genti che sono fra i nostri diretti antenati, e le grandi culture dell'Europa antica nascono dall'incontro di Indoeuropei e Mediterranei (Minoici e Pelasgi nel caso di quella ellenica, Etruschi per Roma). Il gruppo maggiore di articoli, i più numerosi a parte Una Ahnenerbe casalinga dove mi sono occupato della nostra storia più remota, è costituito da quelli compresi sotto il titolo di Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?

Come è facile comprendere, in questa serie di articoli ho posto sotto esame la leggenda della luce da oriente, leggenda che poi è la storia che ci viene sempre raccontata quasi dappertutto, a cominciare dai testi scolastici, che la civiltà sarebbe nata nella cosiddetta Mezzaluna Fertile fra Egitto e Mesopotamia, e sarebbe giunta nel cuore dell'Europa solo poco prima dell'età di Cristo attraverso un complicato passaparola che comprende Sumeri, Egizi, Babilonesi, Assiri, Fenici, Persiani, Minoici, Greci e buoni ultimi Romani. Uno schema talmente radicato da sembrare un'ovvietà, ma la cui credibilità viene meno appena si cominciano a considerare alcuni fatti innegabili che tuttavia non trovano spazio nei testi storici scolastici e divulgativi: i monumenti megalitici europei, tanto per cominciare, Stonehenge, la bellissima tomba irlandese di Newgrange (il più antico edificio giunto intatto fino a noi), il complesso noto come “il cuore neolitico delle Orcadi”, che precedono di un millennio le piramidi egizie e le ziggurat babilonesi. Europeo e non mediorientale è l'addomesticamento dei bovini, come prova il fatto che la tolleranza al lattosio è massima fra le popolazioni centro e nord-europee e decresce man mano che ci si sposta verso l'est e il sud. Europea e non mediorientale è del pari, a quanto pare, la scoperta dei metalli. La più antica miniera conosciuta che reca segni di sfruttamento umano si trova nei Balcani, e il più antico strumento metallico conosciuto è l'ascia di rame dell'uomo del Similaun. La scrittura è del pari un'invenzione non mediorientale ma europea, e questa è una faccenda che ha dell'incredibile. Nel 1962 l'archeologo romeno Nicolae Vlassa scoprì nel sito di Turda in Romania appartenente alla cultura Vinca una serie di tavolette recanti delle iscrizioni pittografiche che furono chiamate “tavolette di Tartaria” (anche se con i Tartari non hanno nulla a che vedere) che sono risultate più antiche di almeno mille anni dei più antichi pittogrammi sumerici conosciuti. Bene, questa scoperta rivoluzionaria non è mai arrivata sui media; sebbene da allora sia passato oltre mezzo secolo, è rimasta avvolta da un coverage nemmeno si trattasse di segreti nucleari, e intanto i media e il sistema scolastico continuano a raccontare una versione falsata e sbilanciata a favore del Medio Oriente della nostra storia più antica. Non è tutto, perché quando andiamo a considerare le grandi civiltà extraeuropee del passato, troviamo sempre alla loro base un elemento europide.

L'Egitto, ad esempio, ha una storia paradossale, una grande civiltà che spunta dal nulla sorprendentemente “matura” e che nell'arco di tre millenni non innova praticamente nulla (l'unica invenzione “nuova” che vi compare a un certo punto è il carro da guerra, che non è un'invenzione egizia, ma fu portato nella Valle del Nilo dai nomadi Hyksos), ma in compenso sembra semmai perdere capacità tecniche; le piramidi, ad esempio, furono opera dei faraoni delle prime dinastie, una tecnica costruttiva che fu poi abbandonata, come se fossero andate perse le capacità tecniche necessarie a realizzarle. Ebbene, altro fatto di cui si evita graziosamente di informare il grosso pubblico, si è scoperto che le mummie dei faraoni e della maggior parte dei personaggi di alto rango avevano caratteristiche antropologiche differenti da quelle della maggior parte della popolazione che abitava e abita ancora oggi la regione: caratteristiche marcatamente europee, spesso con capelli biondi o rossicci. Allora le peculiarità della civiltà egizia non potrebbero spiegarsi con la presenza prima, poi con il progressivo affievolirsi a causa degli incroci con la popolazione nativa, di un'élite di origine europea? Per quanto lo stato di conservazione estremamente precaria dei resti umani in questa regione rispetto all'Egitto non consenta di pronunciarsi con altrettanta sicurezza, un discorso dello stesso genere sembrerebbe valere anche per la Mesopotamia. L'Asia centrale è stata oggetto di un antico popolamento europide le cui tracce sono oggi le mummie ritrovate nel deserto del Takla Makan, mummie dalle caratteristiche europee e stranamente “celtiche”, le iscrizioni nelle oasi del bacino del fiume Tarim in lingua tocaria (lingua indoeuropea del gruppo centum) e con ogni probabilità le popolazioni “europee” e bionde che ancora oggi abitano le alte valli del Pakistan e dell'Afghanistan settentrionali, i Kalash e gli Hunza. Le scoperte più interessanti si fanno forse analizzando la cultura tradizionale cinese: essa è dominata da due “religioni” (che però sono piuttosto delle filosofie di vita), il taoismo e il confucianesimo. Ora, bisogna rilevare che mentre il taoismo è simboleggiato dal bufalo d'acqua, il simbolo del confucianesimo è il cavallo.

Il confucianesimo è soprattutto una religione civile, un'etica basata sul rispetto degli antenati, delle tradizioni, della figura imperiale, del senso di appartenenza a una comunità, dei doveri che esso comporta. Mentre il bufalo rappresenta il sud (dove è largamente impiegato nei lavori delle risaie), il cavallo rappresenta il nord, e qui il riferimento è ai cavalieri nomadi delle regioni settentrionali che gli imperatori cinesi arruolavano nei loro eserciti, e da qui deriva l'impronta “militare” del confucianesimo. Ora, questi cavalieri, è dimostrato, erano spessissimo non mongoli ma europidi: popolazioni indoeuropee, turaniche, unne. C'è dunque alla base della cultura cinese che ha reso possibile l'edificazione di uno dei più vasti e longevi imperi di questo pianeta, perlomeno un elemento culturale di origine caucasica. Io vorrei comunque evidenziare il fatto che le popolazioni estremo-orientali sono degne di ben altra considerazione rispetto a quelle subsahariane, a differenza di queste ultime, hanno dimostrato quanto meno una grande capacità di apprendere, conservare, tramandare, applicare, che vediamo attualmente all'opera anche nel modo in cui si sono impadronite della tecnologia occidentale moderna. Non è possibile fare il confronto con gli stati africani ex coloniali a cui gli antichi colonizzatori hanno lasciato industrie, produzione agricola razionale, ottime infrastrutture, eccellenti costituzioni, e che nel giro di pochi decenni sono ricascati nello stato di arretratezza anteriore alla colonizzazione e che, in ultima analisi, non è altro che la loro condizione naturale. Un caso particolare è rappresentato dal Giappone. In età preistorica il tipo umano del Sol Levante era rappresentato da popolazioni caucasiche conosciute come Jomon, di cui i bianchi Ainu che ancora oggi vivono nell'isola di Hokkaido sono probabilmente un residuo. Con l'andare del tempo, attraverso i contatti con le popolazioni del continente, questo tipo umano ha subito una progressiva mongolizzazione, oggi dominante per quanto riguarda l'aspetto fisico, ma a livello animico e psicologico c'è da pensare che esso mantenga una fisionomia caucasica che lo distacca in maniera netta dagli altri asiatici orientali. Non stupisce che negli anni del secondo conflitto mondiale i Giapponesi si siano schierati sulla base dell'affinità con il tentativo di riscossa europeo contro l'aggressione democratico-comunista. Si può dire di più, nel codice etico dei samurai, il bushido, noi riconosciamo qualcosa di fondamentalmente indoeuropeo, paradossalmente di più di quel che troviamo nella nostra cultura inquinata da fortissimi elementi semitici, a cominciare dal cristianesimo.

Le civiltà precolombiane delle Americhe ci richiamano a un discorso analogo: una base caucasica è tutt'altro che da escludere. La più antica cultura litica americana conosciuta, la cultura Clovis non presenta nessuna somiglianza con quelle siberiane, ed è invece affine a una cultura europea, quella solutreana. E' stata avanzata l'ipotesi che prima dell'arrivo di popolazioni mongoliche attraverso lo stretto di Bering, in età glaciale, cacciatori di foche solutreani avrebbero raggiunto l'America dall'Europa costeggiando la banchisa artica che allora esisteva tra i due continenti. L'idea di un arrivo dall'est è rafforzata dal fatto che i siti Clovis ai trovano prevalentemente sulla costa orientale delle Americhe. A Kennewick nello stato di Washington sono stati poi ritrovati i resti risalenti a novemila anni fa, di un uomo, l'uomo di Kennewick, appunto, dalle caratteristiche chiaramente caucasiche. Ma la prova risolutiva anche stavolta è venuta dallo studio del DNA: circa un terzo del genoma degli Amerindi è riconducibile al tipo eurasiatico settentrionale, cioè quello che costituisce la stragrande maggioranza del patrimonio genetico degli Europei. Là dove un'influenza caucasica non è percepibile: l'Africa subsahariana, l'Australia aborigena, la Nuova Guinea, vediamo che fino all'arrivo dell'uomo bianco i nativi non si sono scostati di un millimetro dal paleolitico. E' interessante quello che hanno rilevato gli archeologi australiani studiando le “culture” aborigene: la loro storia si divide in due fasi, da 50 a 30.000 anni fa, quella degli attrezzi senza manico, da 30.000 anni fa in poi, quella degli attrezzi col manico. Ventimila anni per inventare il manico, questo ci dà l'esatta misura della creatività dell'uomo non caucasico. Oggi l'esistenza stessa dell'homo europeus è minacciata da un declino demografico provocato, dall'immigrazione, dal meticciato, tutti elementi di un piano che punta al nostro progressivo annientamento. Se questo piano riuscisse, l'umanità che sopravviverebbe sarebbe tale solo dal punto di vista zoologico.

NOTA: Fra i molti monumenti che si potevano scegliere per rappresentare la civiltà europea, mi è sembrato opportuno scegliere la triade capitolina, uno dei simboli più pregnanti della romanità. L'unità del nostro continente realizzata sotto Roma rappresenta forse uno dei momenti più alti dello spirito europeo.

Fabio Calabrese

Una Ahnenerbe casalinga, sessantunesima parte – Fabio Calabrese

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Una cosa che dovrebbe essere chiara a coloro che seguono con regolarità questa serie di articoli che ormai possiamo considerare una rubrica sulle pagine di “Ereticamente”, è che a mio parere la cosiddetta Out of Africa che costituisce la vulgata ufficiale, la “teoria” ufficialmente imposta sulle origini della nostra specie, la presunta “verità scientifica” al riguardo, non solo non è una teoria scientifica valida, ma è una vera e propria truffa.

Per meglio dire, essa è presente in due varianti diverse, la prima è dotata di una certa plausibilità scientifica, la seconda invece contrasta con una serie di fatti ben conosciuti, ma è quella a cui sono legate le implicazioni ideologiche che se ne sono volute trarre e per così dire, si nasconde dietro la prima per far passare queste ultime di contrabbando, approfittando del fatto che il grosso pubblico non distingue certo fra le due cose, è una classica operazione di escamotage o, se vogliamo, di gioco delle tre carte.

La differenza fra l'Out of Africa I e l'Out of Africa II sembrerebbe di poco conto, invece è sostanziale, ed è proprio questo che la somiglianza terminologica serve a nascondere. Entrambe sostengono che poiché gli ominidi (soprattutto il genere Australopithecus) considerati intermedi fra la scimmia antropomorfa e l'uomo si ritroverebbero soprattutto in Africa, appunto nel Continente Nero si sarebbe formato il genere homo prima di espandersi in tutto il pianeta. Ora, che questo assunto sia discutibile l'abbiamo visto più volte. Recentemente è stato ritrovato nei Balcani il fossile ominide noto come “El Greco”, ma già prima di allora, si potevano segnalare, ritrovati in Toscana, i resti di una “scimmia antropomorfa”, l'Oreopithecus Bambolensis, che presenta proprio quelle stesse caratteristiche che hanno permesso di indicare negli australopitechi i precursori dell'umanità: canini piccoli, arcata dentaria arrotondata, stazione eretta.

Ora, che io sappia, l'Italia non è Africa, anche se i democratici immigrazionisti stanno facendo di tutto per farla diventare tale.

Ma prescindiamo. La differenza fra le due teorie è che secondo la prima, l'uscita dall'Africa sarebbe avvenuta a livello di Homo erectus centinaia di migliaia di anni fa, mentre per la seconda questa uscita dal Continente Nero si sarebbe verificata qualche decina di migliaia di anni fa da parte di un Homo già sapiens.

Sembrerebbe una differenza di poco conto, e invece è essenziale, perché, mentre la prima non ci dice nulla sulle differenze razziali, dal momento che riguarda il predecessore della nostra specie, la seconda serve a negare l'esistenza delle razze umane, fa parte dell'armamentario ideologico del dogmatismo dell'ortodossia democratica a questo riguardo, e la mancata distinzione delle due serve precisamente a nascondere i “buchi” e le contraddizioni della seconda dietro la plausibilità della prima.

Come se non bastasse, c'è un ulteriore assunto sottinteso a questo discorso, raramente esplicitato, e tuttavia essenziale perché l'Out of Africa II raggiunga il suo scopo, non scientifico ma ideologico, che non ci sia distinzione fra “africano” in senso geografico e “nero” in senso antropologico, un trucco dentro un trucco, potremmo dire, per dare a intendere un'immagine completamente falsa delle nostre origini.

In realtà l'abbiamo visto, la pretesa che il nero subsahariano possa essere “il modello” archetipico della nostra specie, non può essere in alcun modo sostenuta. Il Sapiens “moderno” più antico che conosciamo, l'uomo di Cro Magnon è senz'altro più simile al tipo umano caucasico e non presenta caratteristiche negroidi di sorta, non solo, ma le ricerche genetiche hanno messo in luce il fatto che le popolazioni umane moderne recano nel loro DNA la traccia di ibridazioni con varie popolazioni di quelli che sono stati chiamati pre-sapiens o sapiens arcaici: l'uomo di Neanderthal per le popolazioni caucasiche, l'uomo di Denisova per le popolazioni asiatiche (mongoliche) e australoidi.

Bene, anche il nero subsahariano è tutt'altro che un sapiens “puro”, l'aveva scoperto la genetista Sarah Tishkoff, che in un'intervista riportata da “Le scienze” nel 2012 aveva rivelato:

Abbiamo visto molti dati che testimoniano incroci [dei neri subsahariani] con un ominide che si è separato da un antenato comune circa 1,2 milioni di anni fa”.

Questa scoperta cruciale non ha destato molta attenzione, ma nel luglio 2017 due ricercatori dell'Università di Buffalo, Omer Gokcumen e Stefan Ruhl, hanno pubblicato una ricerca su una proteina della saliva, la MUC7, che nei neri subsahariani si presenta in una variante che non compare in nessun'altra popolazione umana vivente o estinta. Secondo i due ricercatori, quest'ultima sarebbe la traccia genetica lasciata dall'ominide con cui i Sapiens che hanno colonizzato l'Africa provenendo dall'Eurasia si sarebbero incrociati, dando luogo al nero subsahariano, che i due hanno chiamato “specie fantasma” perché al momento non ne abbiamo evidenze fossili.

Gockcumen e Ruhl vanno più in là della  Tishkoff e fanno notare che il movimento di colonizzazione deve essere avvenuto dall'Eurasia verso l'Africa e non in senso contrario, perché altrimenti la variante africana della MUC7 si troverebbe, magari minoritaria anche presso altre popolazioni umane.

A questo punto, occorre fare un discorso molto franco. Quella con cui ci confrontiamo non è una ricerca spassionata e obiettiva della verità, ma un'attività fortemente condizionata da motivi propagandistici a supporto di un'ortodossia ideologica. Noi abbiamo visto, parlando di un problema molto più recente e temporalmente più vicino a noi, l'origine della civiltà, che le prove della sua origine europea sono sistematicamente ignorate: Si ignorano i grandi complessi megalitici europei, quelli delle Isole Britanniche, Stonehenge, Newgrange, Avebury, ma anche quelli dell'Europa continentale: Carnac (Francia), Gosek (Germania), i nuraghi sardi, i templi dell'isola di Malta, complessi che sono di un buon millennio più antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat babilonesi. Si ignora deliberatamente che europea e non mediorientale è la scoperta dei metalli (l'ascia dell'uomo del Similaun), si ignora deliberatamente che europea e non mediorientale è l'invenzione della scrittura (le tavolette di Tartaria), che europeo e non mediorientale è l'addomesticamento dei bovini (la tolleranza al lattosio in età adulta), e via dicendo. Tutto ciò, l'ignoranza voluta, risponde a un disegno politico: non si sa mai che gli Europei ritrovino l'orgoglio delle loro origini e decidano di ribellarsi al disegno di morte per sostituzione etnica deciso per loro dal Nuovo Ordine Mondiale.

Riguardo all'Out of Africa, possiamo aspettarci che avvenga la stessa cosa: anche se smentita dai fatti e dalle ricerche scientifiche serie non meno della tesi dell'origine mediorientale della civiltà, continuerà a essere spacciata come “la verità” scientifica, perché il dogma “antirazzista” in essa implicito è troppo utile per chi tende a  imporre l'universale meticciato.

Nella nostra epoca informatica, la censura non riesce a essere assoluta, ma finché le informazioni pericolose che corrono per il web sono sparse e sommerse da un coro di voci contrarie, il pericolo per il sistema non è grande.

Per un uomo solo, pescare nello sterminato mare del web è estremamente difficile, per questo, un lavoro come quello compiuto dal gruppo facebook “MANvantara” dell'amico Michele Ruzzai che mette insieme la sinergia di vari collaboratori, si rivela estremamente prezioso.

Abbiamo visto una delle scorse volte (la cinquantaseiesima parte della nostra rubrica) che un collaboratore di questo gruppo ha “ripescato” un articolo apparso su “Le scienze” nel 2007 e passato pressoché ignorato, che già allora metteva seriamente in dubbio l'Out of Africa sulla base di una ricerca condotta da una paleobiologa spagnola, Maria Matinòn-Torres, del Centro Nazionale di Ricerca sull'Evoluzione Umana di Burgos. Costei aveva esaminato le corone dentarie umane di 5000 denti moderni e preistorici, considerando che la conformazione delle corone dentarie non risente dell'ambiente, ma è un riflesso diretto del patrimonio genetico, ed era giunta a ricostruire un albero genealogico della nostra specie che ne poneva l'origine non in Africa ma in Eurasia.

Recentemente (fine settembre 2017), sempre su “Manvantara” è apparso un nuovo tassello di questa ricerca che evidenzia l'origine eurasiatica della nostra specie e pone l'Out of Africa sempre più nel dominio delle fiabe, o ve la porrebbe se non avessimo a che fare con un potere che detta l'ortodossia “scientifica” e mediatica sulla base di motivi che di scientifico non hanno nulla.

Si tratta in questo caso di un'ipotesi formulata nel 2016 da  Úlfur Árnason, neuroscienziato presso l'Università di Lund in Svezia, e questo ricercatore fa un'osservazione sconcertante nella sua semplicità e ovvietà, un bellissimo uovo di Colombo di quelli che spingono a chiedersi come nessuno ci sia mai arrivato prima: delle tre sottospecie umane che hanno preceduto l'umanità moderna: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, in Africa non si trova alcuna traccia né di neanderthaliani né di denisoviani, né allo stato fossile né nel DNA delle popolazioni “nere”. La tripartizione-Cro Magnon-Neanderthal-Denisova deve quindi essere avvenuta in Eurasia, e con questa tripartizione l'origine della nostra specie che Árnason pone attorno ai 500.000 anni or sono.

Ottimo, verrebbe da dire, goal e palla al centro.

L'illustrazione che correda il presente articolo, è appunto tratta dallo scritto di Árnason e illustra le prime migrazioni umane secondo la sua ipotesi che definisce esplicitamente Out of Eurasia.

Il nostro discorso, ovviamente, non finisce qui, perché “MANvantara” che tratta di uno spettro molto ampio di tematiche (vi si possono, ad esempio trovare articoli di grande interesse sulla spiritualità indoeuropea e sulle organizzazioni politiche e culturali tradizionali che esulano dalla presente trattazione, ma in ogni caso rendono la frequentazione del gruppo senz'altro consigliabile), sembra aver dedicato negli ultimi tempi molto spazio alla tematica delle origini. Io vorrei ricordare che questa, nel senso in cui ho usato quest'espressione nella sessantina di articoli che ho stilato finora, non riguarda solo il remoto problema delle origini della nostra specie, ma anche questioni molto più vicine a noi, come le origini della civiltà e dei popoli indoeuropei.

In questo senso, può essere utile vedere ad esempio un articolo di Ricardo Duchesne ripreso da “Eurocanadian” e pubblicato nel gruppo in data 28 settembre (è in inglese, e vi do il titolo in traduzione): Gli Europei, i più grandi di tutti. Il succo dell'articolo è questo: Nel 2016 negli Stati Uniti il deputato repubblicano Steve King è stato oggetto di attacchi isterici e accusato di razzismo per aver sostenuto che nessun altro gruppo umano ha dato altrettanti contributi alla civiltà quanto gli Europei di ceppo caucasico. Un breve excursus storico consente di verificare che questa affermazione non è altro che la pura e semplice verità: se questo è razzismo, allora è la realtà a essere razzista.

Un altro articolo, pubblicato il 30 settembre, ripreso da “Linkiesta”, parla di Eugene Dubois, L'uomo che scoprì “l'anello mancante”, che sarebbe stato il pitecantropo (o presunta tale), che questo ricercatore “fuori dalle righe” e sbagliando tutto, scoprì a Giava (in realtà si trattava di un fossile umano, il primo homo erectus di cui siano stati ritrovati i resti, ma questo si capì solo molto più tardi. L'articolo parla diffusamente anche di Ernst Haeckel, lo scienziato e filosofo positivista di cui si ricorda l'affermazione che “l'ontogenesi (lo sviluppo dell'individuo) ricapitola la filogenesi (la storia della specie)”. Di passata, si può ricordare che Haeckel era un assertore dell'esistenza delle razze e della superiorità dell'uomo bianco, arrivando a dire che se invece che esseri umani, il bianco e il nero fossero due chiocciole, nessun naturalista, viste le differenze fra l'uno e l'altro, esiterebbe a classificarli in due specie differenti. Naturalmente, Haeckel scriveva queste cose nel XIX secolo. Oggi siamo in democrazia, e di conseguenza c'è molta meno libertà di fare simili affermazioni.

Sempre in data 30 settembre, il nostro Michele Ruzzai ha postato nel gruppo un articolo ripreso da “Le scienze” del giugno 2009, La comparsa dei comportamenti “moderni”.

E' un fatto singolare eppure innegabile, molti comportamenti che consideriamo tipicamente “moderni”, dalla costruzione di edifici e ripari artificiali dalle inclemenze atmosferiche, all'uso di ornamenti, a un'arte spesso raffinata e dettata da motivazioni non funzionali ma puramente estetiche, compaiono già in epoca paleolitica, attorno ai 45.000 anni or sono.

Sempre il 30 settembre (evidentemente una giornata clou per il dibattito sulle origini), su “MANvantara” l'infaticabile Raffaele Giordano (ha arricchito di contributi “MANvantara”, “Frammenti di Atlantide-Iperborea” e anche la mia “Pagina celtica”, è una persona che merita ampie lodi per il suo attivismo), ha postato un articolo ripreso da “Il timone”, L'australopiteco Lucy era una scimmia e non c'entra nulla con l'uomo. A quanto pare alcuni anatomisti fra cui lo studioso di fama mondiale lord Solly Zuckerman, hanno riesaminato le ossa di questa creatura, e sono giunti alla conclusione che non si trattava altro che di una scimmia antropomorfa. Nel caso che avessero ragione, tutta la storia della nostra specie sarebbe da riscrivere.

Io su ciò preferisco per ora sospendere il giudizio, ma questo ci fa capire quanto la nostra conoscenza del passato sia per ora congetturale. Troppo, quanto meno per giocarci il futuro spalancando incoscientemente le porte ai “fratelli africani” che, dando retta ai sostenitori dell'Out of Africa non sarebbero separati da noi nemmeno da una differenza razziale, che pure ci è sotto gli occhi.

Una Ahnenerbe casalinga, sessantaduesima parte – Fabio Calabrese

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Questa volta procediamo in maniera un po' diversa dal solito. Cominciamo con l'osservare la galleria di “ritratti di famiglia” dell'illustrazione che costituisce l'intestazione del presente articolo, e che ho messo insieme per creare per così dire una riprova visiva delle nostre origini. Vi dico subito che in questa immagine composita la riga superiore si riferisce al contesto europeo e africano, quella sotto all'Asia centrale e orientale. Procedendo da sinistra verso destra nella riga in alto, la prima immagine che vediamo è una ricostruzione recente delle fattezze dell'uomo di Neanderthal, che io ho ripreso da un articolo de “La Stampa” nella versione on line di data 30.1.2014. Si tratta di una ricostruzione che fa giustizia delle caratteristiche scimmiesche che si continuano falsamente ad attribuire a questo nostro antenato (poiché è certo che noi europei-caucasici e anche gli asiatici, ma non i neri africani siamo suoi discendenti) gravemente sottovalutato in base al dogma progressista-evoluzionista per cui ciò che viene dopo deve essere per forza “più evoluto”, superiore e migliore di ciò che viene prima. Noi dobbiamo essere consapevoli del fatto che questo antico uomo la cui eredità continua a vivere in noi, l'abbiamo gravemente sottovalutato, e alcune scoperte recenti lo pongono in una luce molto diversa da come eravamo abituati a considerarlo. C'è fra le scoperte più recenti a tale proposito, quella che può essere considerata la più antica struttura architettonica conosciuta al mondo: il doppio cerchio di stalagmiti che gli uomini di Neanderthal avrebbero realizzato nella grotta francese di Bruniquel: un lavoro che ha richiesto coordinazione e certamente una notevole abilità, lavorando a centinaia di metri sotto terra, e le cui finalità non sembrano essere state di natura pratica, ma di culto. Questi nostri predecessori avevano probabilmente un mondo interiore e spirituale non meno ricco del nostro.

Come se ciò non bastasse, questi uomini avevano una buona conoscenza del mondo che li circondava, al punto che la si potrebbe definire scientifica, con conoscenze che i loro discendenti hanno riscoperto solo molte decine di millenni più tardi, ad esempio una buona conoscenza delle piante officinali e della farmacopea. E' quanto è emerso da una ricerca condotta in tempi recenti dall'Australian Centre for Ancient DNA (ACAD) dell'università di Adelaide in collaborazione con l'università inglese di Liverpool. In particolare, studiando i resti di un uomo di Neanderthal ritrovati a El Sidron in Spagna, si è visto che la sua placca dentaria conservava tracce dell'uso di corteccia di salice (che contiene l'acido salicidico, il principio attivo dell'aspirina) e di muffa del genere penicillum (da cui si ricava la penicillina). L'uomo soffriva di un ascesso dentario e di un parassita intestinale, però gli antidolorifici e gli antibiotici, cioè le armi di punta della farmacopea odierna, erano già noti alla comunità di cui faceva parte. Spostandoci verso destra, troviamo la ricostruzione di una ragazza di Cro Magnon e la foto di una donna tuareg di oggi, una donna tuareg famosa, la cantante Hindi Zahra. Delle popolazioni oggi viventi, a parte i Guanci delle Canarie, ancora esistenti in età storica ma oggi estinti, le popolazioni numidiche come Berberi e Tuareg, sono considerate quelle attualmente viventi più vicine all'uomo di Cro Magnon (e questo potrebbe essere confermato anche da una certa “aria di famiglia” che si avverte fra le due donne). La “teoria”, ma sarebbe meglio dire la favola dell'Out of Africa è stata inventata per scopi ideologici “antirazzisti”, per darci a intendere che noi discenderemmo da neri africani, in modo da distruggere il concetto di razza umana, di rendere questo termine applicabile solo ai cani, ai cavalli, ai bovini da allevamento. Bene, queste immagini rendono evidente che l'Out of Africa gioca sporco, gioca sull'equivoco. Non è escluso, anzi appare verosimile che l'Africa settentrionale possa aver giocato un ruolo nel più antico popolamento dell'Europa (ricordiamo che fino a 12-10.000 anni fa, prima che un imponente cambiamento climatico la trasformasse nel più vasto deserto della Terra, l'area sahariana era fertile, quindi con ogni probabilità intensamente popolata), ma “Africa” in senso geografico non significa nero subsahariano. Sia la giovane di Cro Magnon i cui lineamenti sono stati ricostruiti dai paleoantropologi, sia la donna tuareg (fotografata, quindi non ci possono essere dubbi, come nel caso della fanciulla preistorica, sull'esattezza della ricostruzione), rientrano agevolmente nel tipo umano caucasico, il nostro tipo umano, che al nero subsahariano non deve verosimilmente nulla.

Passiamo al rigo sotto e spostiamoci in Asia. La prima immagine a sinistra è la ricostruzione del volto della mummia di una giovane donna proveniente dalla cultura kurgan di Pazirik, nota come la “principessa Ukok” o “la ragazza tatuata”, infatti sul corpo si sono conservati una serie di tatuaggi di impressionante modernità. Ne ha parlato il 10 aprile 2017 “The Archaeology Network” in un articolo che però è ripreso da “The Siberian Times” del 14 agosto 2012. Ci siamo, è chiaro, spostati in un orizzonte temporale che non è più quello delle centinaia o decine di migliaia, ma solo di migliaia di anni fa, e qui troviamo un'altra verità che “la scienza” ufficiale tende a nascondere o a bisbigliare appena a bassa voce, uno di quei fatti di cui gli specialisti possono parlare in circoli esclusivi, ma che non devono arrivare al grosso pubblico, né tanto meno sui testi scolastici: l'Asia centrale e orientale è stata oggetto di un antico popolamento europide poi sommerso dall'espansione delle popolazioni mongoliche, ma che verosimilmente resta la base delle grandi civiltà asiatiche. Secondo molti ricercatori, in particolare Gordon Childe e soprattutto Marija Gimbutas, la cultura dei Kurgan, che prende il nome da questi monumenti funerari eretti dai cavalieri e allevatori nomadi delle steppe eurasiatiche, coinciderebbe con l'Urheimat indoeuropea, e sarebbe la base a partire dalla quale le lingue e le popolazioni indoeuropee si sarebbero poi espanse verso l'Europa e l'area indo-iranica. Tuttavia, lo studio di questa antica cultura ci insegna anche un'altra cosa: noi assistiamo progressivamente nell'arco di due millenni e mezzo, alla sostituzione nelle sepolture di un tipo umano caucasico con uno mongolico, senza che la cultura materiale mostri di cambiare un gran che. Sembra una prefigurazione del destino che attende noi stessi secondo i piani del potere mondialista, che contemplano la sparizione delle popolazioni europee per sostituzione con le masse di molto più manipolabili e schiavizzabili allogeni provenienti dal Terzo Mondo. Alcuni elementi di cultura materiale della nostra civiltà potrebbero sopravvivere alla nostra scomparsa, a quella dei nostri discendenti e della nostra impronta genetica, una consolazione davvero magra, magrissima.

Spostiamoci sull'immagine successiva, è la ricostruzione di uno Jomon, un abitante del Giappone antico. In età preistorica e antica, le isole del Sol Levante erano abitate da questa popolazione di ceppo caucasico che ha sostanzialmente posto le basi della cultura giapponese, e la cui eredità biologica si conserva immutata nel gruppo etnico noto come Ainu, che tuttora popola l'isola di Hokkaido, la più settentrionale dell'arcipelago nipponico. Il giapponese odierno deriva probabilmente dall'ibridazione di questa popolazione originaria con una serie di influssi e apporti di sangue mongolico provenienti dalle coste del non lontano continente asiatico. Bene, la cosa interessante è che anche se mongolizzato nei tratti fisici, il giapponese ha mantenuto caratteristiche sostanzialmente caucasiche per quanto riguarda la dimensione psicologica e spirituale, al punto da rimanere a livello culturale strettamente affine agli Indoeuropei, e questo spiega la sua superiorità rispetto agli altri asiatici, è probabilmente all'origine della prontezza con cui ha saputo fare propri gli aspetti tecnici della modernità, rimanendo allo stesso tempo profondamente saldo nella sua cultura tradizionale. Amore per il proprio Paese, devozione verso gli antenati e verso i genitori anziani, responsabilità verso la famiglia, lealtà, rispetto delle tradizioni, senso del dovere, spirito di sacrificio, sentimento dell'onore, lo spirito del bushido, dei samurai, dei kamikaze, tutte cose che non abbiamo difficoltà a sentire vicine a noi, anzi, nonostante gli occhi a mandorla, più indoeuropee di quel che abbiamo spesso sotto gli occhi, perché la distanza dal Mediterraneo ha quanto meno preservato il Giappone da influenze semitiche. Non a caso, anche oggi che viviamo in un mondo globale interconnesso, i tre pilastri dell'Occidente moderno e oggi della “cultura” mondiale, tutti e tre originari in qualcosa di estraneo e opposto al mondo indoeuropeo: il cristianesimo, il marxismo e la psicanalisi, non hanno fatto breccia in Giappone, sono rimasti sostanzialmente estranei alla cultura e all'anima del Sol Levante. Non è probabilmente un caso che la religione nazionale giapponese, lo scintoismo, non ha avuto neppure un nome specifico fino a quando non si è trovata a confrontarsi con un pensiero religioso diverso, quello buddista. Lo Shinto era semplicemente “la” religione, la venerazione spontanea per la figura imperiale, per gli antenati, le divinità indigetes, la tradizione in una parola. Per noi Europei, ovviamente, non avrebbe senso convertirci allo scintoismo, ma il confronto con esso può essere un'occasione per riscoprire il nostro Shinto, quella tradizione che il cristianesimo ha cercato di soppiantare e che Teodosio e Carlo Magno hanno cercato di distruggere con la forza.

Soffermiamoci ora sull'ultimo ritratto della nostra galleria: si tratta di una ragazza Kalash. I Kalash sono un'etnia antichissima dai caratteri fisici marcatamente europidi che abita le alte valli del Pakistan e dell'Afghanistan settentrionali, sono anche i portatori di una cultura testardamente pagana, per difendere la quale sono costretti a una dura e non facile resistenza contro i bruni abitanti islamici dei fondovalle che non hanno mai cessato di perseguitarli. Sono detti anche Kafiri, dall'arabo kafir, “infedele”, “non mussulmano” (ma nessuna traduzione può realmente rendere la connotazione di odio e disprezzo che nella mente tarata di un islamico si associa a questa parola). Secondo una diffusa leggenda, i Kalash sarebbero i discendenti di una legione perduta di Alessandro Magno, ma la leggenda non può corrispondere alla realtà, perché quando Alessandro Magno mosse alla conquista dell'Asia i Kalash erano già lì, e pare che i Macedoni li abbiano incontrati, anche se non si può escludere che qualcuno dei guerrieri di Alessandro si sia unito a loro, attratto da uno stile di vita pacifico e semi-idilliaco prima che il lugubre spettro dell'islam cominciasse a tormentare le loro esistenze.

E' probabile invece che i Kalash abbiano la loro origine in un popolamento europide dell'Asia centrale molto più antico, collegato alla presenza di popoli come i Tocari in quello che è oggi il Turkestan cinese e alle mummie europidi “celtiche” emerse dalle sabbie del deserto del Takla Makan a riprova del fatto che prima dell'espansione delle popolazioni mongoliche queste aree erano abitate da genti caucasiche. Al riguardo, un articolo di Italo Bertolasi comparso su “Repubblica” del 16 giugno 1998, Figli di Dioniso, precisava:

Gli antropologi che li hanno studiati dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-ariani attraverso le valli dell'Oxus (l'Amu Darja). L'antica patria cafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose dell'odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio”.

A ciò si può aggiungere quanto riportato da Duccio Canestrini in Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell'Afghanistan, articolo pubblicato su “Airone” del giugno 1989:

Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese”.

I Kalash sono dunque quanto rimane di un antico popolamento caucasico dell'Asia centrale, una pagina, potremmo dire, della nostra storia che è stata quasi completamente cancellata e di cui sembra che per motivi facilmente intuibili, la “scienza” ufficiale non abbia alcuna voglia di riscoprire le tracce. Adesso provatevi a considerare questi “ritratti di famiglia” nel loro insieme. Qual'è il quadro che ne emerge? Quale tipo umano vediamo essere “di base”, ancestrale, di cui gli altri rappresentano in una qualche misura una deviazione, un adattamento a condizioni ambientali particolari? Forse quello nero subsahariano come vorrebbero darci a intendere i sostenitori dell'Out of Africa? Non si direbbe proprio! Quello mongolico? Neppure! Alla fine, chiaramente, rimane un solo tipo umano, quello caucasico, il nostro. L'ho già spiegato, ma conviene tornarci sopra: occorre abbandonare l'idea che “più recente” o “derivato” significhi più evoluto. L'adattamento è il contrario della plasticità evolutiva: l'arto di un mammifero che si trasforma nella zampa di un cavallo, potrà essere estremamente efficiente nella corsa, ma ha perso la possibilità di diventare uno strumento per manipolare l'ambiente, possibilità che è invece conservata dalla mano umana, rimasta “più fedele” al modello originario dei mammiferi e dei vertebrati. Lo stesso discorso che è possibile fare “in grande” per le specie in generale, è possibile riportarlo “in piccolo” nella specie umana, e il formarsi di varietà locali e – diciamolo pure – razziali, significa il discostarsi da un modello di base, un adattamento a condizioni particolari che non è necessariamente evolutivo. Quella oggi minacciata dalla sostituzione etnica, quella a cui apparteniamo, è precisamente la parte più intelligente e creativa della nostra specie.

Fabio Calabrese

Una Ahnenerbe casalinga, sessantatreesima parte – Fabio Calabrese

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Come avete avuto modo di vedere, alcune delle parti precedenti di questa rubrica hanno avuto un andamento un pò particolare: nella cinquantasettesima vi ho presentato una sorta di sunto della conferenza da me tenuta nel 2014 al festival celtico triestino Triskell, come introduzione alla presentazione sulle pagine di “Ereticamente” al testo di quella del 2017 (quelle del 2015 del 2016 ve le avevo del pari presentate, ma stranamente non mi era venuto in mente di rendervi edotti di quella del 2014 che, anche in ragione del tempo intercorso, vi ho in questo articolo presentato in maniera molto sintetica). Ovviamente, essendo rivolte a un pubblico politicamente indifferenziato, hanno un’impostazione generalista, ma noi capiamo bene l’importanza che ha per la nostra visione del mondo la conoscenza delle nostre origini europee che la “cultura” e la “scienza storica” democratiche dominanti si guardano bene dal mettere nella giusta luce.

La sessantesima parte, invece, come già avevo fatto per il numero cinquanta (potenza e fascino delle cifre tonde) è stata invece una sorta di riepilogo del lavoro finora fatto, e la sessantaduesima un piccolo cammeo a sé stante, una piccola “galleria di famiglia” con i ritratti di alcuni dei nostri antenati.

Stavolta torniamo invece su di un approccio più classico della nostra rubrica, su di un discorso che – si può dire – presenta una certa somiglianza con quello già affrontato in altre parti di questa serie di articoli, ossia, nell’attesa della comparsa di novità sostanziali nelle ricerche sulle nostre origini (e va da sé che non ci possiamo aspettare che avvengano tutti i giorni ritrovamenti come quello di “El Greco”, l’ominide balcanico, o dei resti di homo sapiens vecchi di 300.000 anni come è avvenuto nella cava di Jebel Irhoud in Marocco, né tanto meno ci sono da aspettarsi quotidianamente studi come quello sulla proteina MUC7 che dovrebbe essere la pietra tombale dell'Out of Africa, o le impronte “umane” vecchie di sei milioni di anni ritrovate a Creta, e da questo punto di vista il 2017 resta un anno eccezionale), ci dedicheremo a un lavoro di riflessione e approfondimento.

Tempo fa mi era capitato di mettere un commento su facebook, che se l'Out of Africa fosse vera, allora vorrebbe dire che abbiamo fatto tanta strada per levarci dalle scatole quella gente che oggi l'immigrazione extracomunitaria ci riporta tra i piedi.

Riflettendoci, mi sono reso conto che senza volerlo, senza averci pensato, la battuta di spirito enucleava una verità importante. L'Out of Africa si basa su di un palese equivoco: essa ha lo scopo di persuaderci che “veniamo dai neri”, che noi stessi non siamo in ultima analisi che dei neri “sbiancati” e che le razze umane non esistono. È una “teoria” che gioca sporcamente sull'equivoco, perché un'origine su suolo geograficamente africano non significa necessariamente “nero”.

L'Africa mediterranea (NON quella subsahariana) potrebbe aver avuto un ruolo importante nell'origine della nostra specie, ed è quello che induce a pensare ad esempio il recente ritrovamento di Jebel Irhoud in Marocco. Tuttavia, se ci riflettiamo, questa possibilità – per ora ipotetica – si presta a una lettura completamente diversa da quella data dall'Out of Africa, che non è una teoria scientifica, ma un'escogitazione ideologica inventata per “combattere il razzismo” (e va tenuto presente che nel linguaggio orwelliano dell'ortodossia democratica per razzismo non s'intende più l'affermazione della superiorità di una razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono).

In pratica, potremmo trovarci di fronte a una fondamentale biforcazione nel destino della nostra specie, fra quanti sono rimasti nella comoda culla africana, e quanti hanno invece affrontato l'ambiente ostile e il più difficile clima dell'Eurasia. In questa ipotesi, non solo vi potrebbe essere stata una differenza di base fra gli uni e gli altri – sarebbero stati i più dinamici e intelligenti ad affrontare le sfide di un ambiente nuovo – non solo, ma quest'ultimo avrebbe imposto una rigorosa selezione, plasmato letteralmente i nuovi arrivati, e il segno di questa differenza si vede benissimo ancora oggi, se fra le popolazioni di origine eurasiatica e quelle subsahariane si riscontra una differenza di ben 30 punti di Q I che colloca la media di queste ultime al limite di quello che per noi è il ritardo mentale.

Io penso che sia stato soprattutto l'ambiente europeo a plasmarci per quello che siamo, altro che “madre Africa”, in ogni caso la nostra madre è l'Europa. La mia personale idea è che un ruolo di fondamentale importanza l'abbiano giocato le variazioni stagionali che caratterizzano il nostro continente. Il fatto di passare regolarmente da periodi di clima confortevole e abbondanza di risorse a quelli invernali caratterizzati invece da penuria alimentare e dalla necessità di ripararsi dalle intemperie, ha favorito lo sviluppo della preveggenza, della capacità di pianificare la propria vita su tempi lunghi.

Quando si poteva parlare liberamente di queste cose prima che l'ortodossia democratica mettesse al bando la possibilità stessa di sollevare simili questioni (che poi non solo questioni ma dati di fatto), era osservazione comune di chiunque avesse avuto modo di osservare da vicino le differenze di comportamento legate alla razza, che il bianco vive pensando ai prossimi decenni, mentre il nero vive pensando alle prossime ore.

Non è probabilmente un caso che il più antico segno di misurazione del tempo giunto fino a noi lo ritroviamo sul suolo europeo, precisamente in Scozia a Warren Fields, dove sono state trovate le tracce di un calendario lunare di età mesolitica (si veda Le altre Stonehenge, seconda parte), più antico di ben cinquemila anni dei più antichi analoghi calendari mediorientali. Età mesolitica significa un'epoca già agricola, e per un agricoltore conoscere il ritmo delle stagioni è fondamentale, ma prima che per lui lo era anche per un cacciatore che vivesse là dove la disponibilità di selvaggina era soggetta a forti fluttuazioni legate alle variazioni stagionali a differenza di quel che avveniva e avviene in Africa.

Un'altra profonda differenza le cui origini vanno con ogni probabilità ricercate nella diversità dell'ambiente europeo rispetto a quello africano, è l'atteggiamento nei confronti della prole. Le statistiche che abbiamo soprattutto provenienti dagli Stati Uniti (e ricordiamo che gli afroamericani non sono neri puri) sono impressionanti. I tassi di separazioni, abbandoni del tetto coniugale e via dicendo, sono altissimi, si può dire che il maschio di colore tende a non occuparsi per nulla dei figli, ricalcando in pieno, nonostante le differenze ambientali fra USA e Africa al disotto del Sahara, lo stesso atteggiamento dei propri antenati africani che lasciavano esclusivamente alle donne la cura della prole. Per quanto riguarda l'Africa, è interessante rilevare il fatto che le agenzie di microcredito che cercano di promuovere iniziative che la sollevino dalla povertà endemica, fanno i loro prestiti esclusivamente a donne, ben sapendo che gli uomini non farebbero altro che sperperarli.

L'atteggiamento del maschio di colore, al riguardo, ricalca puntualmente quello degli antropoidi che affidano le loro possibilità di trasmettere i loro geni a una discendenza, non alla cura dei propri figli, ma cercando di ingravidare più femmine possibile. Preveggenza, responsabilità, preoccupazione per il futuro, cura ed educazione dei propri figli. Questi sono frutti germogliati sul suolo europeo, sono le basi che hanno permesso all'Europa di essere la madre della civiltà umana (qui il discorso si collega a un'altra tematica che ho ampiamente trattato, la nascita della civiltà non in Medio Oriente come mente la maggior parte dei testi “di storia”, ma sul suolo europeo).

Noi siamo figli dell'Europa in ogni senso, su questo non si possono nutrire dubbi, e credo che la migliore affermazione di ciò ce l'abbia data non uno scienziato ma un combattente, un uomo che si è volontariamente immolato per denunciare con la sua morte lo spaventoso delitto che il potere mondialista sta commettendo contro i popoli europei, provocando la loro estinzione attraverso il declino demografico imposto, l'immigrazione allogena e il meticciato, Dominique Venner, questo samurai della causa europea, le cui parole meritano una particolare reverenza, proprio perché suggellate con il sangue e il supremo sacrificio:

“Io sono figlio della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del Solstizio d'inverno e di San Giovanni d'estate... Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta profonda e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l'Iliade così come l'Odissea, poemi fondatori e rivelatori dell'anima europea. Questi poemi attingono alle stesse fonti delle leggende celtiche e germaniche, di cui manifestano in modo superiore la spiritualità implicita. Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l'eredità che occorre assumere. La storia degli Europei non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è è dato di ritrovare la nostra memoria le la continuità della nostra Tradizione primordiale”.

Vi ho proposto varie volte nella parte iconografica che correda questi articoli (l'ultima nei “ritratti di famiglia” della parte precedente a questa, ragion per cui ora non ve la riproporrò, ma caso mai vi invito ad andare a riguardarvela) una ricostruzione dei lineamenti dell'uomo di Neanderthal tratta dalla pagina scientifica del “Corriere della Sera” del 2014, una ricostruzione recente che fa finalmente giustizia dei tratti scimmieschi fino a poco tempo fa attribuiti a questo nostro antenato, senza dubbio in omaggio al dogma progressista-evoluzionista.

Oggi noi sappiamo che il suo DNA differisce dal nostro per una frazione inferiore all'1%, e non abbiamo alcun motivo per non considerarlo a tutti gli effetti un membro della nostra stessa specie. La sua impronta genetica è presente nel nostro DNA ma non in quello degli africani. Potremmo avanzare l'ipotesi di aver ereditato dall'uomo di Cro Magnon le caratteristiche sapiens avanzate e da lui quelle razziali europidi, e questa sarebbe una chiarissima conferma delle teorie di Carleton S. Coon secondo le quali le caratteristiche razziali sarebbero più antiche del sapiens anatomicamente moderno, e si sarebbero mantenute distinte nei diversi gruppi umani man mano che ciascuno di essi per incrocio genetico con altre popolazioni, raggiungeva il livello anatomicamente moderno. Ne abbiamo parlato altre volte in dettaglio, e caso mai potete andare a rivedervi gli scritti precedenti in merito a questo argomento.

Ora, la cosa interessante è che io ho riproposto questa ricostruzione anche su facebook, raccogliendo alcuni commenti che meritano una riflessione. Secondo uno dei miei corrispondenti, si tratterebbe di “un volto tipico da italiano medio”, mentre un altro mi ha assicurato di aver “scorto diverse fisionomie simili nelle valli bresciane”. Ciò fa riflettere soprattutto alla luce del fatto che un recente riesame dei resti fossili neanderthaliani che ci sono pervenuti ha stabilito che quelli ritrovati in Italia, gli esemplari di Saccopastore e di Monte Circeo, sono i più antichi neanderthal conosciuti, risalenti alla bellezza di un quarto di milione di anni fa, e non dobbiamo neppure dimenticare che Argill, l'uomo di Ceprano risalente a 800.000 anni fa è oggi considerato il più probabile antenato comune dell'uomo di Neanderthal e di quello di Cro Magnon (oddio, è vero che di ciò non si parla molto, perché non si è ancora trovata la maniera di far quadrare questo fatto con la “teoria” dell'Out of Africa). E se l'Italia, proprio la nostra Italia avesse esercitato nella storia della nostra specie un ruolo più centrale di quello che siamo soliti pensare?

L'Italia potrebbe essere stata un importante crogiolo nella storia della nostra specie, ma sappiamo che se noi passiamo a considerare la nostra storia genetica non risalendo alle centinaia di migliaia di anni fa, ma all'orizzonte temporale delle migliaia di anni, fino ai tempi storici e attuali, ci imbattiamo in un problema: dobbiamo confrontarci con una visione delle cose “democraticamente corretta” (e quindi ovviamente falsa) secondo la quale gli Italiani come popolo sarebbero caratterizzati dal fatto di abitare una Penisola dai limiti geografici molto ben definiti, da una cultura in gran parte comune (fatto di per sé discutibile), ma da nessuna coerenza in termini genetici. Questa democratica menzogna è spesso ripetuta dai media, sebbene gli studi di genetica ne abbiano dimostrato la totale falsità.

Che ciò sia falso, sfacciatamente falso, l'abbiamo visto più di una volta: le popolazioni italiche sono un ramo degli Indoeuropei che presentano una precisa identità genetica senza la quale – io penso – le grandi culture che si sono sviluppate nel tempo nella nostra Penisola, dagli Etruschi ai Romani, alla civiltà comunale medioevale, al Rinascimento, non sarebbero mai potute esistere, perché l'imbastardimento e il meticciato generano soltanto decadenza, tuttavia a questo dato più volte evidenziato adesso siamo in grado di aggiungere qualcos'altro.

Io vi devo chiedere scusa, ma il web è un mare magnum, e non sono certo le notizie per noi più importanti quelle che ricevono maggiore visibilità, ma sono spesso sommerse da una marea di cose futili o irrilevanti. Solo ultimamente alcuni amici mi hanno segnalato la notizia riportata su ANSA-it del 2008 circa uno studio sulla genetica delle popolazioni europee condotto dal genetista olandese Manfred Kayser, di cui vi riporto uno stralcio:

“L'unicità degli italiani si riflette anche nel loro Dna: lo dimostra la mappa genetica dell'Europa elaborata dal genetista olandese Manfred Kayser e pubblicata dalla rivista Current Biology. La mappa genetica del Vecchio Continente, che ricorda vagamente quella geografica, è stata creata analizzando il Dna di quasi 2.500 persone appartenenti a 23 sottopopolazioni. Dallo studio è emerso come gli europei siano abbastanza 'simili' tra loro dal punto di vista genetico: le differenze più significative si rilevano tra le popolazioni del Nord e quelle del Sud, forse a causa delle antiche ondate migratorie di uomini preistorici sempre provenienti da Sud. La mappa, inoltre, evidenzia l'esistenza di due isole genetiche: da un lato quella dei finlandesi, e dall'altro quella degli italiani. Le Alpi, infatti, si sarebbero comportate non solo come barriera geografica, ma anche genetica, impedendo un mescolamento del nostro Dna con quello delle altre popolazioni europee”.

Gli Italiani, dunque non solo hanno una precisa fisionomia etnica e genetica, ma così come i Finlandesi, sono così ben distinti dagli altri Europei da costituire una vera e propria “isola genetica”. E scusate, ma non è possibile non mettere in relazione questa peculiarità genetica con l'eccellenza che il nostro popolo ha sempre dimostrato in campo artistico e culturale. I sinistri con rincalzo di pretaglia assortita, quanti altri con la scusa dell'accoglienza ai falsi profughi oggi ci impongono l'invasione dal Terzo Mondo e il meticciato, stanno di fatto distruggendo questa eccezionalità genetica assieme al futuro dell'Italia e probabilmente non riescono nemmeno a immaginare l'enormità del delitto che stanno commettendo.

E noi, glielo lasceremo fare senza reagire?

NOTA: L'illustrazione che correda questo articolo, stavolta la dovreste conoscere già, sono stato poco originale, ma mi sembrava di gran lunga la più adatta, l'ho ripresa da “Ereticamente”: il ritratto di Dominique Venner assieme alla poesia dedicatagli da Juan Pablo Vitali, è il minimo che la memoria di questo eroe della causa europea meriti.

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